Ottieri, un depresso con ironia di Ernesto Gagliano

Ottieri, un depresso con ironia Intervista all'autore del nuovo romanzo "Contessa Ottieri, un depresso con ironia Lo scrittore parla dei suoi tormenti - Uno dei sintomi dominanti? "La paura" - Il personaggio del suo racconto è un simbolo? "Tutto è clinico. Ad un certo punto doveva esserci la parola Dio, ma l'ho sostituita con tre puntini" (Dal nostro ito pc) Milano, 22 febbraio. Sta sul divano e sospira: «Sono un depresso». Un gatto siamese, che si chiama Venerdì, gioca nel salotto. Ottiero Ottieri, 51 anni, sposato e padre dì due figli, lo sguardo un po' velato, è tornato alla ribalta con un nuovo romanzo, «Contessa», edito da Bompiani. Un tempo lavorava in fabbrica, alla Olivetti, faceva il consulente per le assunzioni: selezionava uomini, era quasi un confessore laico. Tanti test, migliaia dì test. Poi si è ammalato, lui che toccava il polso agli altri, e si è ritirato in casa. Scrive, cerca di scrivere quando il cattivo umore non lo opprime. La fabbrica — La solita alienazione, quella specie di nevrosi provocata dalla routine nel vetrocemento? «No, no — precisa con un tono da cartella clinica — non stavo proprio bene in senso psicopatologico. Soffro di sindrome ansiosa e depressiva». La luce lattiginosa di Milano cola nel salotto, su qualche mobile antico e qualche quadro. Florinda, la cameriera spagnola, porta una bottiglia di Coca-Cola. Ottieri spiega come, laureato in lettere, figlio di «agrari in fallimento», abbia sentito la profonda attrattiva della fabbrica e della classe operaia. Come abbia preferito Milano a Roma. Leggeva Marx e Freud, bisognava proprio che lo esplorasse questo mondo della produttività industriale con i suoi trionfi e le sue colpe. Quell'incarico delicato, di cui sentì tutta la grave responsabilità, lo deve ad Adriano Olivetti «un uomo troppo presto dimenticato». «Per un lungo periodo — ricorda — ero quasi un ingegnere». Poi gradualmente ha lasciato, colpa anche dei «disturbi», ma «il distacco dalla Olivetti è stato dolorosissimo». «Ancora adesso mi basta passare per Sesto San Giovanni, vedere le grandi scritte sugli stabilimenti, e il mio cuore esulta». Le insegne al neon esprimono il suo rimpianto. Ha scritto, dopo l'addio alla fabbrica, «Il campo di concentrazione», definito un perfetto manuale sulla depressione (alle spalle ha successi come «Donnarumma all'assalto» e «La linea gotica»). E poi quest'ultimo romanzo, «Contessa», costruito a pezzetti, al trotto dell'asino, storia di una donna che fa la doppia parte del malato e del medico. La protagonista, Elena Minti, è una psicosociologa, le gambe lunghe e meravigliose, il seno efebico (quelle piccole coppe che piacciono a molti uomini), la vita che le sprofonda attorno come un baratro. La sua esistenza oscilla tra Milano e una clinica dì Zurigo dov'è stata ricoverata e ora si sottopone a sedute psicoterapeutiche. E' frigida, insicura, con un debole per il gin-tonic, si aggrappa ad avventure amorose mentre il matrimonio e il figlio restano lontani, in un paesaggio dimenticato. Lo stile è intenso, talvolta perfino scoppiettante come se la disperazione assumesse toni di allegretto. La vicenda è una fu¬ ga verso il punto di partenza. Un'altalena tra il vano tentativo di strìngere l'essenza della vita e quello di ritirarsi per paura che la stessa cosa (l'amore vero?) accada oppure non accada. «Con sorpresa — dice Ottieri — noto che certe donne si ritrovano in quel personaggio, ma non l'ho descritto con l'intenzione di fare del tipico». — E' una vicenda che non si conclude, mi pare... «Si conclude con un TS». — Come? «Sì, con un tentato suicidio. Lei si tagliuzza una vena nella toilette e poi chiama il medico». Riaffiora il linguaggio psichiatrico, come un ritornello. — Lei ha dei "disturbi" come quelli del suo personaggio? «Faccio una vita poco sana. Mi muovo poco, non ho distrazioni. Ecco, sono un auto-distruttivo, ma non un suicidale nel senso clinico della parola ». — Uno dei sintomi dominanti? «La paura». — Ma questo stato influisce sulla sua visione del mondo? «Non sono un catastrofico. Come conosco i malati, così conosco i sani. E poi l'ironia e l'umorismo sono l'altra faccia del depresso». — La tristezza non può essere in fondo un modo della fantasia? «No, guardi, quella del depresso è sterile e ripetitiva. Pensi ad un caleidoscopio. Faccia conto che i vetrini siano idee fisse. Lei muove il caleidoscopio, i vetrini sono sempre quelli che girano, girano, girano nei modi più variopinti ». Abitudinario — Non le è mai venuto il dubbio di essere affezionato a questa malattia? «Sì, perché tutti me lo dicono. Ma poi penso: perché dovrei esserne affezionato? Pur di liberarmene mi farei tagliare un dito. Guardi, con un coltello, qui...». — E gli altri depressi li trova simpatici? «Finché non ci annoiamo l'un l'altro con le nostre storie». Ripiegato su se stesso, Ottieri si analizza, si disseziona. Come un clinico. E' junghiano, crede nel caso per caso, rifiuta le generalizzazioni. — Non pensa che la depressione oggi possa essere di moda, come un tempo il romantico spleen, in una società considerata alienante? «Non mi faccia domande generali, non le accetto». Descrive la sua giornata. Gli piaceveder gente diversa, la letteratura lo riscatta dal cattivo umore. Certe volte si alza a mezzogiorno, altre volte alle sette è già a tavolino; va a letto prestissimo oppure fa molto tardi: e con tutto ciò si considera un abitudinario. Il lavoro è duro, soprattutto la stesura, ma certe idee arrivano così, all'improvviso, come folgorazioni. «Ad esempio — spiega — mi sono accorto che Elena è anche il nome della protagonista femminile del mio primo romanzo». Torniamo alla bella Elena, dalle lunghe gambe, assorta in una tesi che non finirà mai («Come salvare Cesare Pavese dal suicidio») e protesa in una ricerca insoddisfatta che naufraga in incontri sessuali E' un simbolo? «Per carità. Le frigide sono tendenzialmente ninfomani. Tutto è clinico. Ad un certo punto nel romanzo doveva esserci la parola Dio, ma l'ho sostituita con tre puntini...». Sarebbe stata una fantasia imperdonabile per uno che si considera un analizzatore di fatti, uno scrittore in camice bianco. E poco dopo, quasi a conferma, Ottieri mormora, con quella sua voce sommessa e lenta: «I chirurghi mi hanno sempre attratto. Ah, Dogliotti e Valdoni- Che grandi, con quelle mani...». — Non pensa che sia la routine a stringerla e soffocarla come un cappio? «Sì, forse. Ma avrei bisogno di un missile, un propulsore che mi proiettasse via». Fuori c'è Milano «che diventa sempre più brutta e per questo, appena c'è un ponte, tutti fuggono». Dentro c'è il caleidoscopio con i soliti pensieri che si disfano e si ricompongono. In attesa che la letteratura compia il suo benefico esorcismo. Ernesto Gagliano

Luoghi citati: Milano, Roma, Sesto San Giovanni