Una Rosa tra storia e teatro
Una Rosa tra storia e teatro LA "LUXEMBURG,, DI FAGGI E SQUARZINA A GENOVA Una Rosa tra storia e teatro (Dal nostro invialo speciale) Genova, 15 febbraio. Calma, ragazzi. Se Rosa Luxemburg, la grande rivoluzionaria polacca assassinata a Berlino nel 1919 dalle guardie bianche (armate da quella stessa borghesia tedesca che avrebbe poi spinto al potere Hitler e oggi reclama a gran voce, c ottiene, leggi sempre più severe contro gli «anarchici» e i «rossi»), è stata rivalutata c il luxcmburghismo non è più la bestia nera dei partiti comunisti come lo era. con il trotzkismo, fino agli Anni Quaranta, tuttavia è almeno arrischiato parlare, a proposito delle sue idee, di «immaginazione al potere» come è accaduto nel maggio '68, o esaltarne soltanto lo spontaneismo come e costume della sinistra giovanile più avventurosa. Da questi «eccessi» prende le distanze il dramma che Vico Faggi e Luigi Squarzina hanno scritto su Rosa Luxcmburg e che è stato rappresentato dallo Stabile genovese nella Sala chiamata del porto in ossequio a quel decentramento che continua a esigere sedi disagiate e durissimi sedili (ma da martedì lo spettacolo, magari vergognandosi un poco, ritorna tra i velluti del «Duse»), Si direbbe che gli autori, rendendosi conto che non era possibile ripercorrere le strade del teatro-documento battute con buoni risultati col «Processo di Savona» e «Cinque giorni al porto», abbiano questa volta giocato tutto sul personaggio così come è venuto configurandosi negli studi più seri di quella rifioritura luxemburghiana che ha già dato buone biografie, acuti saggi e anche non pochi drammi dei quali quello di Faggi e Squarzina non e tra gli ultimi perché, anche se esce solo ora, la sua stesura, alquanto travagliata, è cominciata almeno cinque anni fa. in equilibrio Dal punto di vista della storia mi sembra, lasciando l'ultima parola agli esperti, che gli autori abbiano fatto un buon lavoro, anche se la prudenza, con la quale tengono Rosa in difficile equilibrio tra il leninismo di un partito, che guida con mano di ferro la rivoluzione, e il giacobinismo, che si affida alla «spontaneità creatrice delle masse», è prudenza più da politici che da storici, sino alla salomonica conclusione che Rosa aveva ragione su un piano ideale, ma torto sul piano concreto della realtà bolscevica del '19. In ogni modo la dialettica tra necessità e libertà, fondamentale nel pensiero e anche nella vita della Luxcmburg, è chiaramente esposta: anzi è il leitmotiv, troppo spesso ripetuto, del testo e prende carne nei dibattiti tra Lenin e Rosa, sia faccia a faccia (in Finlandia con abbastanza improbabilità, e con maggiore verosimiglianza nei congressi dell'Internaziona- le) sia per tramite di Radek, infido o ambiguo emissario di Lenin. Ma è un dramma, e non una lezione di storia e di ideologia quello che Faggi e Squarzina avevano in animo di scrivere. Per questo hanno cercato di rappresentare Rosa anche nella sua vita privata, per questo hanno indugiato sugli aspetti sentimentali o addirittura romantici, e drammaticamente contraddittori, della sua personalità. Ecco allora gli amori di Rosa, da quello tenerissimo e tenace per Leo Joghices a quello capriccioso e materno per l'adolescente figlio di Clara Zetkin sino alla profonda amicizia per il giovane medico Diefenbach; ed ecco ancoro l'affetto di Rosa per i bimbi, gli animali, i fiori e le sue aspirazioni a una vita diversa, fuori dalla lotta politica... In questo modo sono sì riusciti a presentare il personaggio in tutta la sua complessità ma non a rompere, se non raramente, la compatta crosta del didatticismo che soffoca quelli che avrebbero dovuto essere i nuclei drammatici, e diciamo pure «teatrali», della vicenda. Si ha l'impressione di assistere a un oratorio laico, circolare nella sua struttura (incomincia la dove finisce), immobile nelle sue «stazioni» quasi espressionistiche, privo di intrinseca drammaticità, rimanendogli semplicemente sovrapposta quella conferitagli dagli avve- ] nimenti, spesso sanguinosi terribili, che racconta. Questi rilievi valgono anche per lo spettacolo, messo in scena dallo Squarzina, che è grigio e monotono anche più del testo con quei tagli di luce crudi alla Pabst (il regista, magari non a torto, ha tenuto conto anche del cinema tedesco degli Anni Venti, come del teatro di Brecht e, attraverso questo, persino del teatro orientale), con le musiche pesanti ed enfatiche di Roman Vlad, con quel continuo trasportare e sbatacchiare tavoli e sgabelli che costituiscono i soli elementi scenici di Gianfranco Padovani. Sforzo lodevole Rimane, lodevole, lo sforzo talvolta felicemente risolto di inventare un linguaggio e una scrittura scenica compatti servendosi di materiali, come si è visto, di diversa provenienza anche se, a furia di cercare l'originalità o di sollevare lo spettatore un po' affranto, è venuto fuori l'infelice e imbarazzante quadro del ballo mascherato che non c'entra proprio niente col resto. Da tutto questo si salva il fascino che gli autori e il regista sono riusciti a cavare, almeno per uno spettatore un po' politicizzato (e si spiegano l'attenzione e anche l'entusiasmo dei giovani), da interminabili e insistiti dibattiti: si discute, come si discute, anche di arte e rivoluzione, di religione e marxi¬ smo, prò e contro il riformismo, anche se poi, e giustamente, i socialdemocratici alla Ebert e alla Noske vengono affogati nella vergogna e nel ridicolo. E soprattutto si salva il fascino che esercita la splendida figura di Rosa anche su coloro ai quali suona sforzata la pretesa di appiopparle la concezione retorica di un «socialismo dal volto umano». Questo fascino è affidato sulla scena a Adriana Asti che si sforza di essere fedelissima, anche fisicamente (il passo zoppicante, i buffi cappellini, la valigetta che diventa come il simbolo della sua vita errabonda) al modello, ma non sempre alle sue diverse età. In ogni caso, la sua resta un'interpretazione di tutto rispetto e una prova di fortissima volontà e applicazione come d'altronde si deve dire di tutta l'impegnatissima e folta compagnia che la circonda: una ventina di attori per almeno quaranta personaggi: tra i quali mi sembra giusto ricordare in modo particolare Omero Antonutti per il suo Lenin, e anche per il suo Liebknecht, e Donatello Falchi per il suo sfumato Radek. Ma anche Franco Carli, lackie Gerbino, Rachele Ghersi, Camillo Milli, Carlo Reali, per citare solo alcuni nomi, contribuiscono al buon esito dello spettacolo che alla prima «ufficiale» di sabato sera ha avuto cordiali accoglienze. Alberto Blandi
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