Rosso si, ma all'europea di Vittorio Gorresio

Rosso si, ma all'europea LUNGO TRAVAGLIO DEI PARTITI COMUNISTI OCCIDENTALI Rosso si, ma all'europea La diffìcile ricerca di una strategia comune fa slittare la conferenza sull'eurocomunismo - Per molti è un buon segno, è la prova che non si vuole più andare "ad ascoltare il verbo" - E anche gli avversari devono rendersi conto di questa mutata realtà Roma. 15 febbraio. Eurocomunismo: è una parola che ha fortuna in questi tempi di revisione e riconsiderazione dei problemi politici della nostra età. Naturalmente non ha niente a che vedere con l'eurodollaro, a dispetto della comune radice, ma neppure — è un discorso più serio — con il cosiddetto eurocentrismo, un peccato del quale tante volte siamo stati accusati noi abitanti del vecchio continente. Che cosa significa, in sostanza? E' il desiderio, il proposito, l'impegno di inventare un tipo speciale di comunismo che convenga agli europei dell'Ovest. Lucio Colletti, recentemente, lo ha definito infatti «il polo occidentale» del comunismo, dicendo che si tratta di una linea politica difficile, asperrima, garantita da nulla, quasi un'avventura. Però è anche la sola linea sulla quale è possibile tentare la costruzione di una nuova sinistra europea, passando attraverso un contatto con le socialdemocrazie occidentali e tentando di accendervi un barlume di ispirazione socialista. Non è soltanto — dice bene Colletti — la sola vìa possibile per la sinistra europea, ma pure il solo mezzo che può riaprire una dialettica reale nel blocco dei Paesi dell'Est. In altri termini, direi: dato che la cosiddetta sinistra è quella che ci può salvare da una dura reazione della destra reazionaria, è necessaria la ricerca di un eurocomunismo come forma politica che ci preservi innanzitutto dall'obbedienza sovietica. Gli americani non danno credito, arroccati come sono nella loro visione manichea della distinzione irrefutabile fra il bene e il male, naturalmente inteso il bene come la «american way o£ life», e il male come tutto quanto non vi si conforma. Anche un politico ineccepibile come il tedesco Willy Brandt ne ha parlato con molta diffidenza in un'intervista che ha concesso, in occasione dell'ultima riunione dell'Internazionale socialista nel castello danese di Elsinore: ma i tedeschi non hanno, per motivi storici e politici, una visione molto serena dei problemi connessi al comunismo. Pelle nuova L'eurocomunismo è in pratica una concezione dell'Europa meridionale e mediterranea, e quindi importa più cercarne i modi di elaborazione nei nostri paesi. Le conclusioni dell'ultimo congresso dei pcf a Saint-Ouen sono al riguardo illuminanti. Su Panorama del 17 febbraio Giorgio Fattori ha scrìtto che il comunismo francese rischia dì ripetere il suo ruolo frenante, malgrado l'im¬ provvisa euforia di novità che sembra averlo pervaso: «Arroccandosi dietro lo schema gollista del rifiuto di istituzioni sovrannazionali, il pcf dimostra come sia più facile cambiare pelle che mentalità. Sempre in ritardo sui colleghi latini e jugoslavi, isolandosi dall'Europa l'avventura di Marchais interesserebbe poco». Oltre che esatta, la diagnosi dì Giorgio Fattori è molto acuta. Bisogna ricordare che nel mese di luglio del 1975 l'italiano Enrico Berlinguer e lo spagnolo Santiago Carrillo erano giunti a concordare un documento in cui sì parlava di «posizioni comuni di strategia e di avanzata democratica verso il socialismo in Europa occidentale». In novembre, un altro passo era stato compiuto in occasiore dell'incontro a Bologna j ra Berlinguer e Marchais, e ne era scaturita una dichiarazione che pareva affermare l'opportunità di una collaborazione a tre (comunisti italiani, francesi e spagnoli) in vista di un'azione comune nell'area mediterranea. Ma poi Carrillo, forse, corse troppo. In un'intervista concessa a La Stampa il 15 dicembre, egli si disse favorevole ad una «ristrutturazione dell'internazionalismo fondata appunto su un coordinamento della nostra azione con quella del resto del movimento operaio dell'Europa capitalista». Subito, allora, la Humanité obiettò con un tono abbastanza altezzoso: «Per quanto lo concerne, il partito comunista francese ha un diverso punto di vista su questi problemi (...). Esso è contrario ad ogni limitazione della sua sovranità, quale non mancherebbe di risultare da una creazione di non si sa quale blocco occidentale sud-europeo». Ecco il gollismo rosso di cui parlava Giorgio Fattori. Gollisti o comunisti, i francesi sono sempre francesi. Quando si proclama, come ha fatto Marchais, un internazionalismo fondato sulla solidarietà con tutti i partiti comunisti del mondo, di qua e di là dalla antica cortina, o con quelli dei Paesi del cosiddetto secondo, o terzo, o quarto mondo, si dice una cosa che ha poco senso. I problemi sono diversi nei Paesi socialisti e nei Paesi non socialisti, in quelli europei ed in quelli lontani dal nostro continente. Una strategia comune come quella proposta da Berlinguer e da Carrillo, può essere adottata soltanto dai partiti che si trovano ad affrontare situazioni simili, mediterranee o no. Ma forse per Marchais l'idea di essere intruppato in un fronte occidentale sud-europeo non è fra quelle concepibili. Sarà il Sud che lo angoscia, facendogli pensare ad una sorta di declassamento. Ci si potrebbe scoraggiare, ma si sa bene che i comunisti non sono gente che si scoraggia. Non esisterebbero più, altrimenti. La loro idea Gli italiani, fermi e fissi da sempre nella loro idea dell'eurocomunismo o del polo occidentale del comunismo, hanno tenuto l'altro giorno, venerdì 13 febbraio, un'adunanza della prima commissione del loro comitato centrale per ascoltare e discutere una relazione di Giancarlo Pajetta ed un'altra dì Sergio Segre, rispettivamente sulla politica estera del pei e sulla preparazione della conferenza dei partiti comunisti d'Europa, della quale in particolare si sta parlando da tanto tempo. Da tanto tempo se ne parla perché è una conferenza che di rinvio in rinvio ha continuato a slittare, come si dice in Italia, secondo i termini di un gergo politico che è veramente nostro, nazionale. Trattandosi però di una questione internazionale, lo slittamento è viste questa volta dai 7iostri comunisti come un fatto positivo. In altri tempi si sarebbe fatto molto più presto: ai tempi del Comintern, o del Cominform che gli succedette, bastava un fischio dell'Unione Sovietica perché tutti i partiti comunisti stranieri si allineassero. Il famoso rapporto Zhdanov del 1948, o giù di lì, non fu naturalmente contrattato: ma soltanto ascoltato ed approvato secondo una forma di automatismo precostituito. Ora è molto diverso, aa.esso che si parla di eurocomunismo. Se si ritarda la convocazione dei partiti comunisti d'Occidente è un segno buono — dichiarano soddisfatti i comunisti italiani —. Sarebbe la prova che nessuno vuole più andare «ad audiendum verbum», ma piuttosto a discutere sulla base di concordie prefabbricate. E' un po' quello che avviene in occasione delle conferenze diplomatiche, che si preferisce non convocare se non si ha prima la garanzia che esse possano approdare a un risultato positivo. Prima mettiamoci d'accordo, poi discutiamo: è un motto bolognese di grande saggezza che mi spiace di non saper citare nel dialetto di quella nobilissima regione, ma che comunque è nello spirito degli organizzatori di una conferenza che non si vuole che fallisca. La conferenza sull'eurocomunismo si terrà forse nella tarda primavera di quest'anno, secondo le previsioni più favorevoli, e sarà chiamata ad approvare un documento che il mio amico e collega Luigi Bianchi del Corriere della Sera mi dice che sia stato fonte di discussioni a | non finire, scritto e riscritto cento volte, nemmeno ancora arrivato alla stesura definitiva perché i romeni — sembra — non ne sono ancora contenti. I jugoslavi avanzano tuttora alcune riserve perché non li persuade un passo che assimila l'anticomunismo all'antisovietismo, e ci saranno indubbiamente alcune altre difficoltà, lessi| cali o teoriche. Ma ciò che importa è ben altro. In questo famoso documento, difatti, la tesi italiana delle «vie nazionali al socialismo» è stata formalmente, espressamente, accettata da tutti, come paradossalmente è stato dimostrato dallo stesso cripto-gollismo dei comunisti francesi; e ci si può tenerne soddisfatti. Leggo su l'Unità di sabato scorso 14 febbraio che «la lunga durata e anche il travaglio nella preparazione della conferenza sono derivati in primo luogo dai ritar¬ di nel comprendere che si trattava non già di scegliere tra vari documenti astrattamente possibili, ma di imboccare con coraggio politico l'unica strada che poteva condurre ad una conclusione positiva e unitaria. Il lungo dibattito ha investito nodi essenziali della politica dei partiti comunisti e dei rapporti tra essi esistenti, che possono svilupparsi solo sulla base dell'esplicito riconoscimento dell'indipendenza e dell'autonomia di elaborazione, anche teorica, di ognuno di questi partiti». A questo punto vorrei trarre qualche conclusione, come mi sembra mio dirittodovere, ad uso dei lettori. Esiste il fatto nuovo dell'eurocomunismo, in via di sganciamento dal comunismo sovietico, ed in quanto cronista dei fatti del mio tempo mi sento in obbligo di parlarne. Ma non ne parlo con l'intenzione di raccomandare a nessuno di accogliere con gioia o anche magari solo con rassegnazione il modo nuovo in cui si sta incarnando il comunismo internazionale: solo allo scopo di segnalare un fatto nuovo che poi ciascuno può giudicare come meglio ritiene o come più gli piace. Ci fu un tempo, nell'immediato dopo guerra, che i comunisti nostrani erano raffigurati nelle vignette di Girus su L'uomo qualunque o in quelle del Bertoldo di Giovanni Guareschi in guisa di persone quasi-robot che tenevano applicata all'orecchio una cuffia telefonica ricevitrice in filo diretto degli ordini di Mosca. Io non so quanto fossero rappresentative in maniera fedele dei rapporti di allora fra pcus e pei; sono del resto cose che oramai interessano una generazione che non è più la nostra, né riproducono situazioni politiche comparabili alle attuali. Voglio soltanto dire che gli anticomunisti di oggi sono nell'obbligo di aggiornarsi, e che se intendono continuare a combattere la loro pur legittima battaglia debbono almeno prendere atto che il vecchio spettro del comunismo sovietico adesso ha un altro nome: è un «eurocomunismo» che bisogna affrontare con altri metodi e altri mezzi. Vittorio Gorresio Georges Marchais, leader del partito comunista francese