Quando le liceali avevano le trecce di Ernesto Gagliano

Quando le liceali avevano le trecce EPITAFFIO PER L'AMOR PLATONICO Quando le liceali avevano le trecce Il vento della liberazione sessuale ha fatto una vittima illustre: l'amor platonico. E' un bene? Forse sì, perché si nutriva di illusioni, di distacco dalla realtà, si avvolgeva in un involucro di cellophane. Ma è sempre una perdita, anche solo della fantasia, e merita un epitaffio. Adesso si legge di liceali, lui 17 anni c lei 16, che dichiarano in un'inchiesta: «Facciamo l'amore quando capita, poi stiamo bene insieme, senza pretese di eternità». Giusto. Il sesso è un momento normale della vita quotidiana, un'intesa gioiosa, un piacere senza enfasi. Ma quando non era così? Quando era un mostro misterioso e romantico che accendeva febbri nelle fantasie dell'adolescenza? Torniamo indietro nel tempo, di venti, trent'anni o giù di lì; andiamo in un liceo classico di allora o in qualsiasi altra parte dove si radunavano degli adolescenti che oggi si direbbero « oppressi » dal senso di colpa, dall'educazione rigida, da un apartheid che divideva, in ogni possibile occasione, i maschi dalle femmine. Che cosa accadeva? Intanto, sui banchi di scuola la femminilità era sistematicamente mortificata. Le ragazze erano trasandate senza maquillage di sorta, spesso con pettinature che le facevano apparire più simili a novizie che a studentesse. Se qualcuna, in mezzo a quel gregge penitente e all'apparenza asessuato, aveva una particolare cura della persona o dell'abbigliamento era destinata a spiccare come una perla. Una « star » si direbbe oggi. E richiamava gli sguardi, insieme con l'aiuto dei vicini di banco durante i compiti in classe. Un suo sorriso, una gamba accavallata con arte le valevano il « passaggio » della traduzione di greco o di latino. Eppure, ogni tanto, in quell'ambiente castigato fioriva uno strano fenomeno: l'amor platonico. Era una nebbia, quasi una malattia. Un'esaltazione che aveva riscontro perfino in certi sacri testi di letteratura. Era sesso sublimato. E quando questa febbre colpiva un ragazzo (bisognava, beninteso, che avesse qualche intcriore predisposizione) veniva segnato da una serie di caratteristiche nobili e ridicole, veggenti e cieche. Vediamo, con il distacco dei clinici, quali erano i sintomi e il decorso di questo morbo sentimentale che i più spregiudicati allora chiamavano « cotta ». Innanzitutto lei, l'oggetto della passione, si trasformava in una figura eterea. Aveva — nell'immaginazione di lui — soltanto il viso, se non addirittura soltanto gli occhi, corredati, periodicamente, da una bocca triste o sorridente. 11 resto del corpo, chissà perche, svaniva nell'indeterminato, in ogni caso nel regno degli attributi senza importanza. Forse quella parte anatomica si volatilizzava così perché era vietata e, quindi, istintivamente cancellata. E se qualche compagno, refrattario alle trasfigurazioni, si azzardava a dire: « Però, ha anche un bel seno e le gambe diritte » subì to veniva zittito. « Smettila, sei volgare. Tu non capisci niente ». Il ragazzo punto da amor mentale entrava in uno stato di agitazione che era tutto meno che il desiderio di « giacere con lei ». Era la voglia di apparire interessante, di fare grandi cose, di essere degno c così via. Perché? Per innalzarsi all'altezza della persona che idealizzava. E siccome era lui a metterla su un piedestallo sempre più alto, le distanze diventavano incolmabili. Scattava anche un'altra congiura: quella delle cose assolute. Cioè, il legame non era visto come un momento o una serie di momenti piacevoli da passare insieme, ma come qualcosa che aveva a che fare con l'eternità. Bastava sfiorare una mano, sentire un profumo di capelli (pettinati a coda di cavallo o raccolti in trecce), studiare vicini la lezione di italiano, raccogliere dalla sua bocca frasi sul tipo « mi piace stare con te » che subito sbucava da qualche parte il con¬ cgrilnvbvn cetto di assoluto. Sì, certo, quegli attimi erano verità che sarebbero durate a lungo; anzi, il tempo sarebbe finito e quelle verità no, sarebbero continuate ad esistere. « Sempre », « mai » erano i vocaboli più usati in quel balbettìo sentimentale che non a* veva niente della vera comunicazione. C'erano anche crisi profonde, tristezze inconsolabili, ore passate chiusi in camera a fissare la finestra. La presenza di lei, l'immagine di lei era uno sconvolgimento tale che induceva il ragazzo a porsi gli interrogativi più cnigmatici sull'esistenza. Tutto il resto sbiadiva, perfino i genitori perdevano gli affettuosi contorni di un tempo. E qualcuno si abbandonava anche al feticismo: una foglia raccolta assieme durante una gita, un bigliettino (« Tu tiferesti l'ut e il congiuntivo? ») scambiato fra i banchi erano cimeli che finivano tra le pagine di un libro. In questo revival stilnovistico dell'adolescenza la « persona amata », pura e senza difetti come se fosse stata lavata da un detersivo, passeggiava per le vie del centro, a braccetto con le compagne, simile a una magica apparizione. Aveva la capacità di miracolare perfino i luoghi: anche se squallidi e noiosi, diventavano straordinari perché c'era stata lei. E quanti giovani, morsi da questa tarantola platonica, si mettevano a scrivere versi scomodando la luna e altri astri. La carica emotiva era scambiata per ispirazione. Questa, forse, è la colpa su cui è più difficile chiudere un occhio. Perché Leopardi, Foscolo e perfino D'Annunzio stravolti facevano capolino in quelle composizioni stereotipate, in quei foglietti stropicciati da ansie e ripensamenti. Le cose andavano avanti così, tra sospiri e brevi incontri nel corridoio della scuola. Sembrava che tra i due fosse accaduto tutto, invece non c'era stato niente. Proprio niente. L'eternità durava, in genere, qualche mese o qualche anno. La divinità, alla fine del liceo, cadeva dal piedestallo e magari sposava un geometra o un commerciante con un negozio bene avviato. Se avveniva un incontro, dopo parecchio tempo (perché le vie imboccare dai due compagni di scuola erano diverse), era un incontro fra estranei. Eppure quella suprema illusione restava nel bagaglio dei ricordi come certi versi di Saffo, di Virgilio o di Dante. Era un fantasma nato dagli studi, un amore liceale. Falso? Forse sì. Ma era anche la materializzazione di quel bisogno di assoluto che c'è spesso nell'adolescenza di ognuno di noi e che, strada facendo, si perde. Ernesto Gagliano

Persone citate: D'annunzio, Foscolo

Luoghi citati: Virgilio