CURCIO: 7 anni di terrorismo di Alvaro GiliCosimo Mancini

CURCIO: 7 anni di terrorismo CURCIO: 7 anni di terrorismo Tre omicidi, otto sequestri di persona, nove rapine, irruzioni in abitazioni e uffici, parecchie decine di auto incendiate, dodici attentati sono il bilancio più appariscente dell'attività « guerrigliera » delle Brigate rosse. Il movimento, almeno come idea, nasce nella mente di Renato Curcio, quando con la moglie, Margherita Cagol, frequenta 1 corsi di sociologia presso l'università di Trento. Trasferitisi a Milano, nell'estate del '70, i due entrano a far parte del collettivo politico La comune. La scritta « Brigate rosse » compare per la prima volta sulle pareti del box del direttore della Sit-Siemens, Giuseppe Leoni, al quale incendiano l'auto: è il 17 settembre 1970. Ma il vero e proprio « debutto » dell'organizzazione avviene il 20 novembre dello stesso anno: i brigatisti ressi danno fuoco alla vettura di Ermanno Pellegreni, funzionario dei servizi di sorveglianza della Pirelli. Sette giorni dopo lo sequestrano, tenendolo prigioniero alcune ore. Da quel momento, le Brigate rosse ripetono i loro atti di terrorismo in varie città d'Italia: lanciano bombe contro commissariati di pubblica sicurezza, incendiano auto di avversari politici e provocano incendi ed esplosioni in varie fabbriche del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova). Prima che le forze dell'ordine si rendano conto della pericolosità del movimento, le Brigate rosse compiono il primo clamoroso sequestro che ha ripercussioni nell'opinione pubblica nazionale: rapiscono Idalgo Macchiarmi, dirigente del reparto trasmissioni della Sit-Siemens. Il 3 marzo del '72 Macchiarmi viene affrontato da due uomini, caricato su un furgone (sul quale viene fotografato) e in seguito «processato». Il dirigente è liberato alcuni giorni dopo. Le Brigate rosse cercano pubblicità, inviano alle redazioni dei giornali la fotografia del dirigente in catene, sotto la minaccia di due pistole, con alle spalle un grande drappo e la scritta « Brigate rosse, mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpiscine uno per educarne cento! Tutto il potere al popolo armato! ». Questo tipo di fotografìa diventerà usuale per i sequestri che seguiranno. Le forze di polizia capiscono che il movimento va stroncato sul nascere. Compiono numerose perquisizioni e alcuni fermi. Le Brigate rosse da questo momento entrano nella clandestinità. Più tardi, nella base di Pianello Val Tidone, presso Viacenza, i carabinieri del nucleo speciale troveranno un opuscolo ciclostilato di venti pagine in cui si dice tra l'altro: « Fu l'offensiva scatenata dal potere contro l'organizzazione il 2 maggio che cancellò ogni dubbio sul fatto che la clandestinità è una condizione indispensabile per la sopravvivenm di una organizzazione politico-militare offensiva che operi all'interno delle metropoli imperialiste. Il 2 maggio cominciammo cosi a costruire l'avanguardia proletaria armata a partire dalla più ermetica clandestinità ». Il terrorismo delle « Brigate rosse » segue una preoccupante « escalation ». La sera del 15 gennaio 1973 tre uo- mini armati di pistola e mitra entrano negli uffici dell'U.C.LD. (Unione Cristiana Imprenditi: ri Dirigenti) di Milano. INella sede c'è soltanto il direttore di segreteria: Giulio Barana. Lo immobilizzano, legandogli dietro la schiena mani e caviglie e lo chiudono nel bagno. S'impossessano di documenti dell'archivio e scrivono sulle pareti slogans politici firmati B.r. Meno di un mese dopo, le B.r. sono a Torino. Il 12 febbraio alle 9,15 sequestrano Bruno Labate, impiegato Fiat, segretario provinciale della Cisnal. Lo rapiscono sotto casa, lo caricano su un furgone, e dopo il solito « processo » gli rasano il capo lasciandolo incatenato ad un palo nei pressi dello stabilimento Mirafìori. L'offensiva è incalzante: il 10 dicembre, sempre del 1973, prelevano il rag. Ettore Amerio, direttore del personale Gruppo Automobili Fiat. L'impressione è enorme. La città è spaventata, le forze dell'ordine impegnate sino allo spasimo. Si teme per la sua vita. La prigionia dura otto giorni. Amerio viene tenuto prigioniero in un locale non riscaldato che solo qualche mese fa è stato scoperto dalla polizia. Le Brigate rosse nel frattempo hanno compiuto nove rapine in varie banche, soprattutto nell'Emilia-Romagna: il bottino si aggira sugli 80 milioni. Con il danaro hanno acquistato numerosi alloggi, sotto falsi nomi, in molte città dell'Italia settentrionale. L'obbiettivo principale è « il colpo al cuore dello Stato »: decidono allora di rapire un magistrato. Per agire partono dagli alloggi, trasformati in « covi ». «Alle 20,50 circa del 18 aprile 1954 — si legge nelle requisitorie del sostituto procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia — alcune persone armate (almeno sei), atteso il dott. Mario Sossi, sostituto procuratore di Genova, davanti alla sua abitazione, in via Forte San Giuliano, lo afferravano con violenza e lo caricavano su un furgone; la borsa tipo "24 ore", che Sossi aveva con sé e conteneva varie carte d'ufficio, veniva afferrata da uno degli aggressori e posta su una 127 verde». All'impresa partecipano tutti i migliori uomini dell'organizzazione. Le auto dei brigatisti sono collegate per radio fra di loro. Il piano è perfetto. Il giudice resta prigioniero 35 giorni, durante i quali viene sottoposto a un vero e proprio lavaggio del cervello. I carcerieri sono in possesso di informazioni par¬ ticolareggiate sulla sua attività e sulla sua vita privata. Gli interrogatori vengono condotti direttamente da Curcio e Franceschini. Durante la prigionia, Sossi scrive drammatici appelli. Le Brigate rosse chiedono di trattare con lo Stato, altrimenti minacciano di uccidere Sossi. Ma lo Stato non cede. Il magistrato viene rilasciato il 23 maggio in un giardino pubblico di Milano. La polizia sembra però trovare la pista buona: a Firenze arresta il « capo colonna » Paolo Maurizio Ferrari. A Pinerolo, 1*8 settembre del '74, i carabinieri catturano il «capo», Curcio, e il suo luogotenente Franceschini. La prigionia di Curcio dura poco. Trasferito nel carcere mandamentale di Casale Monferrato (poco adatto ad un « guerrigliero » del suo calibro), il « capo » delle Brigate rosse viene liberato il 19 febbraio del 1975 con un'azione condotta dall'esterno e alla quale pare abbia partecipato sua moglie Margherita Cagol. Il commando è formato da poche persone, decise a tutto e ben informate. Dall'esterno vengono tagliati i fili del telefono; una donna suona alla porticina del carcere. Appena entrata, estrae una pistola e la punta contro la guardia, poi dice a voce alta: « Renato vieni ». Curcio è già in attesa a pochi metri di distanza. L'evasione è perfetta, e per alcuni mesi non si sente più parlare di Brigate rosse. Però il movimento non ha più denaro; le file si sono assottigliate. Sebbene abbia molti simpatizzanti, pochi sono disposti a condividere pericoli e clandestinità. Curcio, la moglie e pochi fedelissimi si ritirano in una cascina (la «Spiotta») sulle colline di Acqui Terme. Qui viene studiato il sequestro dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia, il cui riscatto avrebbe dovuto rinsanguare le finanze dei brigatisti. L'azione è compiuta mercoledì 4 giugno, alle 15,30, mentre l'industriale si reca in auto nel proprio stabilimento vinicolo. Due auto gli sbarrano la strada. Gancia chiude le porte dall'interno. Con una martellata i brigatisti infrangono un finestrino e lo costringono a scendere, lo portano nella cascina «Spiotta» di Acqui, ma uno di loro, Massimo Maraschi, viene arrestato poche ore dopo in seguito ad un incidente automobilistico. Incarcerato non parla. Gli inquirenti hanno però, da questo momento, una certezza: il sequestro è stato compiuto dalle Brigate rosse. Il giorno dopo, poco prima di mezzogiorno, il tenente Rocca, dei carabinieri di Acqui, il maresciallo Catafn, l'appuntato D'Alfonso e il carabiniere Barberis si arrampicano lungo il viottolo che porta alla cascina « Spiotta ». Davanti all'ingresso, sull'aia, sono posteggiate due auto. Tutto sembra tranquillo. Quando l'ufficiale si avvicina alla porta, i brigatisti cominciano a sparare. Il D'Alfonso muore il tenente Rocca è colpito da una bomba e perde un braccio; gli altri sono feriti. I brigatisti credono di aver avuto la meglio e mentre stanno per allontanarsi vengono affrontati dall'autista della pattuglia. Gli lanciano contro una bomba, ma il carabiniere apre il fuoco con il mitra. Margherita Cagol viene raggiunta da un proiettile al cuore: era rimasta nella cascina per coprire la fuga del marito. Curcio riesce ancora una volta a far perdere le proprie tracce. Alvaro Gili Cosimo Mancini II corpo di Margherita Cagol davanti alla cascina dopo la sparatoria con i carabinieri seguita al rapimento Gancia La moglie Margherita Cagol