Le soffereme di Carla Ovazza durante la caccia ai rapitori di Mario Bariona

Le soffereme di Carla Ovazza durante la caccia ai rapitori Per la prima volta un sequestro in liquidazione Le soffereme di Carla Ovazza durante la caccia ai rapitori Trentacinque giorni al buio con le orecchie tappate con cunei di mastice - I carcerieri "gentili" con la prigioniera, ma dipendevano da un capo feroce e disumano In un sequestro non c'è niente che dipenda dalla volontà della vìttima: questa è in balia dei suoi carcerieri e dì chi è ancora nel « mondo ». Di chi ha il potere di pagare. La vittima non sa nulla delle trattative. E' costretta a credere tutto quello che le dicono. E si fa una visione particolare del suo « nuovo mondo », senza luce, nel quale è costretta a vivere, senza sapere nulla. A chi l'ha vista in televisione, disinvolta, come fosse in salotto con le amiche, sarebbe difficile riconoscere in Carla Ovazza la stessa persona che dodici ore prima parlava nella caserma dei carabinieri di Moncalieri con l'« intermediario » Sion Segre, il colonnello Schettino e il giudice Pepino. Una donna distrutta, che parla con voce tremante e rotta dai singhiozzi; che si fa ripetere le domande due o tre volte perché non afferra le domande, frastornata com'è dai rumori riscoperti dopo che le hanno tolto i tappi di mastice che le turavano le orecchie. Tutto quanto comincia con una esperienza traumatizzante. « Ti senti afferrare nella notte — racconta —. Un tampone di cloroformio sulla bocca e ti sembra di soffocare. Sei spinta nell'auto, schiacciata sotto i corpi dei rapitori. Appena cerchi di muoverti per respirare un soffio d'aria attraverso il cappuccio che t'hanno ficcato a forza in capo, sono pugni e calci. Non sai dove ti portano, non sai come finirà. Capisci che ti hanno rapita e basta. Il resto non conta più. Pensi al figlio di 15 anni che hai lasciato solo in casa, se troverà il numero per telefonare al padre che si trova a Parigi ». Questi sono ancora pensieri « regolari », che affiorano tra ombre di paura ed angoscia. « L'auto si ferma — continua Carla Ovazza — e passi su un'altra macchina. Inciampi e ti sorreggono. Non vedi nulla, non sai dove sei ». Quanto tempo è passato? « Non so, non mi ricordo, non posso essere sicura di nulla ». « La macchina si ferma una seconda volta — riprende —. Ti afferrano le gambe e le braccia e sei portata da qualche parte, così: in modo che tu non sappia dopO'se hai sceso o salito gradini. Una catena ad una caviglia, ti gettano su una brandina. Intuisci che è la tua cella. Altri timori si fanno strada. Sei nelle mani di sconosciuti che hanno potere di vita o di morte; però obbediscono a qualcuno di cui, a loro volta, hanno paura: un capo, duro, spietato. La cella è tanto buia, da non potere scorgere le pareti. C'è soltanto un riverbero di luce attorno alle doppie porte. Un "bunker" dove sfiori quasi il soffitto alzando un braccio. Tre passi di lunghezza, per un metro e mezzo di larghezza: quanto ti consente la catena al piede. La brandina, la catena fissata a un chiodo («se lo tocchi ce ne accorgiamo subito»), un gabinetto ricavato in un angolo ai piedi del letto, senza acqua corrente, che puzza e dove i carcerieri spruzzano in continuazione deodorante ». I « camerieri », li chiama Carla Ovazza. Oppure « quei signori ». A poco a poco si convince che sono vittime di qualcuno anche loro e che stanno « espiando una pena ». E' un concetto sul quale tornerà più volte, una sensazione che lascia molto perplessi sul preciso significato. II carceriere si dimostra gentile. Per Natale porterà anche una fetta di panettone e un bicchiere di spumante. La vittima piange perchè « poveretti sono stati buoni con me ». Oppure quando il cuore batte per un'improvvisa angoscia e in un momento di sconforto cerca di uccidersi sbattendo la testa contro il cemento della pa- rete, un carceriere le siede accanto « quasi affettuoso » e le tiene a lungo una mano fra le sue. Le fanno scrivere messaggi a casa sotto dettatura, illuminando la carta con una lampadina tascabile da dietro le spalle e girano i fogli usando i guanti. Sembra che ricevano ordini da una persona che chiamano « il vice capo ». Poi le rivelano che è il capo che deciderà se tagliarle o meno la testa. E la terrorizzano dicendole che, se la famiglia non pagherà, le toglieranno prima un'orecchio, poi l'altro, poi un piede, infine il capo. « Ma chi pagherà? E perché pagheranno? Perché le vogliono bene? ». Sion Segre, l'uomo che ha tenuto i contatti (dopo che Giulio Lattes era stato minacciato e ricusato dai rapitori) dice « Tutti ti vogliono bene, Carla ». « I carcerieri mi portavano un buon " menù " e promettevano di accontentarmi in tutti. "Se vuole qualcos'altro, o diverso, ce lo dica signora Ovazza. Avrà tutto quello che vuole " ». La notte però è lunga e lei si conserva, come ì prigionieri nei « lager », le briciole di pane in tasca, per i momenti di fame improvvisa. La carne del pranzo è tenerissima; il brodo buono con la verdura dentro e le danno anche la frutta (« per le vitamine »): mele, arance, mandarini e banane; caffelatte e biscotti al « plasmon » il mattino; formaggio alla sera. Chiede dell'acqua. « Verrà il cameriere a portarla » rispondono. Non poter comunicare, non vedere nulla, non sentire assolutamente nulla, può dare allucinazioni e squilibri. Trentacinque giorni, uno dopo l'altro senza tempo, senza luce, senza rumori: immersi nella paura, in condizioni di vita umilianti spezza qualunque resistenza. Quello che il segregato non riesce a immaginare, è quanto succede fuori dal « bunker ». Non conosce gli sforzi che vengono compiuti per liberarlo. « La famiglia è disposta a trattare, ma non miliardi: cifre, dell'ordine di centinaia di milioni ». Sembrano le trattative di una resa militare. Le parole sono limitate all'essenziale. Tutto è regolato da un manuale di procedura che si « inventa » di volta in volta. Vi sono ragioni familiari, che assumono proporzioni di « ragioni di Stato ». Bisogna anche decidere sui principi. Il primo interrogativo è: pagare o non pagare? Pagare è immorale, non pagare disumano. L'avvocato Gianni Agnelli dichiara: « Debbo rilevare che il ricorrente quanto improprio e vano tentativo di coinvolgere la mia persona in questa dolorosa vicenda — alla quale sono estraneo — non può che pregiudicarne una rapida e positiva conclusione ». La sua è una posizione rigida, forse impopolare. Si dovrà proprio a questa linea di intransigenza, di Agnelli ed alla « assoluta impossibilità di trattare » del marito, Guido Barba Navaretti, se il sequestro verrà posto in liquidazione. «Siamo convinti — dicono al Nucleo Investigativo — che se avessimo resistito ancora un paio di giorni, invece di 632 milioni si sarebbe pagata la somma iniziale di 382 milioni ». Quando i rapitori infatti si sono accorti di un muro di resistenza invalicabile, oltre il quale le responsabilità ed i rischi passavano di mano e toccava soltanto al loro «cervello» l'ultima decisione è successo qualcosa di imprevisto. Alla « voce » del « manovale » dell'Anonima sequestri che non si curava neppure di evitare compromettenti influenze dialettali piemontesi, si sostituisce quella metallica da « robot » di un professionista che scandisce: « Si-amo-lon-ta-nidalla-ci-fra-ri-chie-sta ». La gestione del riscatto passa nelle mani dirette dell'organizzazione. Un « estraneo » è arrivato da Locri o addirittura dalla Sicilia, per gestire l'« affare ». In quel preciso momento gli intermediari di Carla Ovazza avvertono di aver segnato un punto a loro favore: trattare con professionisti offre qualche maggiore garanzia. E ritorna così il discorso della vecchia mafia (quella siciliana con i suoi codici di comportamento) e quella « nuova » calabrese, però in subordine, meno preparata che supplisce con la violenza e la crudeltà, alla sua condizione di inferiorità. « Signora Ovazza se non pagheranno le taglieremo... » Cosa può fare Carla Ovazza dal "bunker"? Le trattative passano sulla sua testa. Le minacce a questo punto sono ferocia gratuita. — Quanto avete pagato? — chiederà subito Carla Ovazza. Mario Bariona Nevio Boni

Luoghi citati: Locri, Moncalieri, Parigi, Sicilia