Le poche ore in cattedra non fanno un professore di Mimmo Candito

Le poche ore in cattedra non fanno un professore Crisi italiana e crisi dell'Università Le poche ore in cattedra non fanno un professore (Dal nostro inviato speciale) Milano, 21 febbraio. Nel numero 511 di Panorama, alla pagina 30, una foto mostra il presidente Moro nell'ateneo romano: « Anche durante la crisi ha continuato a far lezione », spiega il settimanale. Moro è uno dei circa cinquemila professori ordinari dell'università italiana, fa il ministro o il capo di governo e contemporanea-1 mente insegna; cerne lui, nu-1 merosi deputati e senatori della nostra Repubblica. Dice un giovane docente sventolando il periodico milanese: « La didattica è una cosa complessa, un'invenzione faticosissima; fare il professore non vini dire dare gli esami e stare in cattedra tre ore la settimana ». Sull'incompatibilità e il full Urne ogni tentativo di riforma ha trovato blocchi insuperabili, centinaia di do centi dedicano la loro vita alla professione privata, cliniche di lusso, centri di consulenza, studi legali famosi. La gravità della crisi universitaria non è colpa del professor Moro, la pendolarità dei docenti è solo il sintomo più aspro della dequalificazione dell'istituto. Il rapporto didattico è quasi ovunque inesistente, la stanchezza e la sterilità della contestazione hanno fatto rientrare la prassi cattedratica, il rituale liberalistico nasconde soltanto una cultura degradata e il disinteresse. Dice Pichierri, sociologo a Torino: « Sul piano scientifico, le cose più importanti si fanno fuori dell'università ». La crisi è totale, distrutta l'immagine dello studente, distrutta l'immagine del professore. Dice Gino Giugni, docente di diritto del lavoro a Roma: « L'ampliamento dell'organico dei professori ha senso soltanto se è concomitante con l'adeguamento delle strutture: nelle forme istituzionali (dipartimenti eccetera) e in quelle materiali (sedi, aule, istituti). Altrimenti, esso potrà render giustìzia di indebiti ritardi o normalizzare carriere, ma l'utente del servizio ne trarrà poco o nessun vantaggio ». La crisi, infatti, non si è ridotta. Gli studenti vagano sperduti all'interno dell'istituzione, il distacco tra università e società è segnato dall'assenza della prima nei grandi fenomeni culturali e politici della realtà contemporanea: il dibattito la ignora, i contributi che ne vengono sono portati a titolo personale dalle poche individualità che coltivano l'impegno dello studio. La conferma è data dalla caduta, qualitativa e quantitativa, della ricerca: il tentativo di democratizzazione si è risolto in una fuga all'esterno, l'università non produce più conoscenza nuova, le sue metodologie sono inerti; il gran lavoro dei diecimila borsisti a vario titolo — sfruttati, mal pagati, soggetti alle bizze di baroni vecchi e nuovi — rid' .-e la frattura, ma non può costituire un'alternativa globale. Dice Antonio Drago, docente di fisica a Napoli: « In queste condizioni, ogni lavoro fatto merita rispetto e attenzione; ma più sovente l'interesse particolare e l'opportunismo prevalgono sulla volontà della ricerca ». li livello medio delle tesi di laurea si abbassa prò gressivamente, sono finite le «scuole» che marcavano l'orgoglio di singoli atenei, non c'è dialettica di proposizioni con la demanda nuova che preme dalle strutture sociali emergenti dal mondo del lavoro, dell'economia, dell'in formazione. Dice Giorgio Spini, docente di storia: « Non si può andare avanti alla carlona e senza chiedersi se quello che si fa serva a qualcosa oppure è uno sperpero di tempo e denaro. Non si fan no le riforme, ma si trova il modo di varare alla chetichella nuovi corsi di laurea che non trovano sbocchi professionali. Si creano università a Cassino, Viterbo, Campobasso, senza garantire le strutture scientifiche e i docenti caI paci di dare serietà agli stu¬ di ». Ma il problema non è solo di Cassino; a Roma, Milano o Torino, laboratori, attrezzature, biblioteche sono carenze che danno ragioni alla fuga verso la privatizzazione dell'impegno. Dice un docente di fisica al Politecnico: « La sensazione più frustrante è l'irrilevanza del proprio lavoro, avvertiamo d'aver intorno il vuoto ». Il rendimento d'un professore universitario diventa così tra i più bassi, il suo distacco trova due sbocchi: all'esterno una lucrosa attività privatistica, all'interno un complesso di colpa scaricato con ogni concessione verso lo studente. Il docente si costruisce una serie di alibi — « culturali o pseudorivoluzionari », confessa un assi stente ordinario — e riversa sulle carenze strutturali la crisi del suo rapporto con l'università. Il caos amministrativo lo conforta nella rinuncia: riceve lo stipendio con ritardi enormi, molto spesso è solo un anticipo (sul quale l'università trattiene poi un interesse); se non vive di rendita, o è un santo o cerca integrazioni fuori dall'ateneo. Dice Pichierri, sociologo: « Io non conosco la mia retribuzione attuale, e da due anni sono assistente ordinario e docente incaricato a Torino». Una consulenza di tre-quattro giorni gli farebbe guadagnare quanto un mese d'università; basterebbe un solo giorno, se fosse un barone ad alto reddito. Dice il direttore dell'istituto di fisica d'una università del Nord: « Si formano due categorie di docenti: quelli che, in base solo alla loro coscienza, si sacrificano all'interno dell' università e quelli — la maggior parte — che usano la docenza solo per avere onorari più pingui». Non è un problema morale, ma una crisi culturale indotta dalla crisi d'identità dell'istituto; dice De Masi, sociologo a Roma: « Il disinteresse e la fuga sono un effetto, non una causa: il docente universitario ha un cast dì elementi psicologici che lo motiverebbero a realizzarsi nell'insegnamento cui si è dedicato, se questo fosse appena possibile ». Il sottosviluppo culturale è inevitabile, la ricerca necessita di organizzazione e impegno; il consiglio di amministrazione dell'università di Roma ha inserito nel bilancio di quest'anno, per la prima volta, la voce « ricerca ». Dice Giunio Luzzatto, decente di fisica a Genova: « La dequalificazione è un riflesso della divisione internazionale del lavoro e della dipendenza e gerarchizzazione del nostro sistema ». Un' università che non produce cultura denuncia la crisi d'una società, la sua devitalizzazione: il problema non è socialismo o capitalismo, ma lo scivolamento progressivo verso l'area dei Paesi del Terzo Mondo. Il sapere e la scienza non sono appendici passive, l'università è l'anima d'un Paese, il suo futuro. Nelle aule vuote e nei laboratori polverosi il ristagno economico e ideologico dell'Italia trova una sua storia. Mimmo Candito

Persone citate: Antonio Drago, De Masi, Gino Giugni, Giorgio Spini, Luzzatto, Pichierri