Verdun, tra l'epopea e il massacro di Alvise Zorzi

Verdun, tra l'epopea e il massacro Verdun, tra l'epopea e il massacro Il 21 febbraio 1916, alle sette e un quarto del mattino, la neve che copriva i boschi intorno a Verdun — una cittadina francese sulle rive della Mosa, al centro di un complesso sistema di fortificazioni — cadde silenziosamente dai rami degli alberi, come se mani invisibili li avessero scossi. Un istante dopo, un tuono immenso, spaventoso, lacerò il silenzio. Lungo un arco di una quindicina di chilometri, centinaia di cannoni tedeschi di ogni calibro presero a vomitare ferro e fuoco sulle linee francesi. Via via, le voci più cavernose e violente dei giganteschi pezzi da 280, da 380, da 420 si unirono al coro infernale. I proiettili sollevano grandi getti di terra e di pietre, scavano buche profonde come burroni, sconvolgono trincee e abituri, annientano la vegetazione, fanno sparire il poco che ancora rimane di cascine e villaggi. Sotto il fuoco implacabile i soldati francesi inebetiti, stravolti, assordati, in preda ad una nausea incoercibile, guardano senza vedere con occhi sbarrati. Molti cadono squarciati dalle schegge, moltissimi scompaiono, disintegrati nel polverone col quale i loro resti si mescolano fino a diventare parte integrante del terreno. Dopo più di nove ore le artiglierie allungano il tiro e le truppe tedesche passano all'attacco, sicure che il bombardamento abbia distrutto ogni forma di vita. Invece, dal fondo delle buche, da dietro le montagne di terra e le cataste di cadaveri, escono fantasmi fangosi, laceri, barcollanti, ma decisi La battaglia, scatenata dai tedeschi il 21 febbraio 1916, ebbe fine dopo dieci mesi e seicentomila morti dei due eserciti Vinsero i francesi, con Pétain, che fermarono l'avanzata germanica; furono sconfìtti l'umanità e il futuro del Continente a resistere, anzi, capaci addirittura di contrattaccare. Così per dieci mesi, davanti a Verdun, e alla fine di dicembre 1916 le linee avversarie si ritroveranno ad essere le stesse del 21 febbraio. Per i tedeschi come per i francesi la cittadina è diventata un simbolo, al di là del significato strategico della battaglia. Più di seicentomila morti, tra francesi e tedeschi, ne consacrano la memoria per entrambi i popoli, e, piuttosto che i grandiosi ossari, il loro santuario è la terra, una terra magra che non potrà mai più nutrire altro che poca erba stenta o poche piante rachitiche e nella quale si sono mescolate e confuse carni, ossa e personalità di una folla immensa di esseri umani. Anche davanti all'orrore atomico di Hiroshima, di Nagasaki, l'orrore di Verdun rimane insuperato. Stragi dovunque Eppure, anche se di proporzioni eccezionali, Verdun non è che un episodio nell'insieme di quella mostruosa tragedia che fu la Grande Guerra. Erano due anni che episodi simili si verificavano sul fronte francese, un anno che si ripetevano sul fronte italiano. Continueranno a ripetersi per altri due anni buoni. E dal 1914 al 1918 milioni e milioni di uomini, giovani per lo più, saranno costretti a vivere il martirio della trincea. E' singolare, in quante maniere la vita dei fanti in trincea abbia anticipato e precorso i futuri orrori dei campi di sterminio hitleriani. Condizioni di vita disumane, uomini laceri accata¬ stati in abietta promiscuità negli infetti abituri infestati dai topi, luridi pantani di terra resti umani e deiezioni; fame (spesso le corvées del rancio non arrivavano, spazzate via da un bombardamento); sete; malattie; pidocchi; e la mutilazione o la morte in perpetuo agguato, per mano del nemico (assalti, bombardamenti, tiri di mitragliatrici e insidie di cecchini) o per mani « amiche » (a parte le artiglierie che sbagliavano spesso tiro, mai i plotoni d'esecuzione ebbero tanto lavoro, tra decimazioni di reparti indisciplinati e fucilazioni di sbandati, di fuggiaschi e di poveracci scelti così, a caso, « per dare l'esempio »). L'Europa faceva la prova generale di ciò che ne farà il disonore una ventina d'anni dopo. Tra la fotografiia di un settore di trincea davanti a Verdun e una foto di Dachau o di Bergen-Belsen c'è qualche differenza, ma non proprio una differenza abissale. L'onore di avere incrinato l'offensiva tedesca e di aver posto le premesse del fallimento di quella grande operazione con la quale il generalissimo tedesco von Falkenhayn sperava di rimettere in movimento il fronte, bloccato dalla battaglia della Marna in poi, spetta ad un personaggio al quale il destino ha riserbato un futuro ambiguo ed una fine ingloriosa: il maresciallo di Francia Philippe Pétain. I Ogni anno, la ricorrenza delle date più salienti della celebre battaglia è pretesto per furibonde polemiche tra chi vorrebbe che i resti del condottiero riposassero tra i fanti dell'ossario di Douaumont e chi sostiene che l'antesignano del collaborazionismo, il simbolo della Francia della capitolazione e di Vichy non merita quell'onore. In verità, quali siano state le sue colpe tra il 1940 e il 1944, rimane a Pétain il merito non tanto di aver vinto a Verdun, quanto del come e del perché di quella vittoria. Quei generali Economia di vite umane, comprensione delle sofferenze e delle necessità del soldato, umanizzazione del comando, preparazione concreta e approfondita delle azioni, ecco gli ingredienti — del tutto insoliti allora — che Pétain usò dal 25 febbraio, quando assunse il comando, fino al 1" maggio in cui lo dovette lasciare; oltre alla invenzione della cosiddetta « noria », la rotazione continua dei reparti in prima linea (c'erano reggimenti ridotti, da 3000 uomini, a 200, e compagnie ridotte ad un solo uomo!) per permettere ai sopravvissuti di non essere subito ricacciati nella fornace. Bastarono quegli ingredienti a far credere al soldato francese di non essere più considerato sol'anto carne da cannone e a ridargli fiducia nei capi: subito dopo l'arrivo di Pétain, e per opera sua, l'artiglieria francese, fino ad allora praticamente assente, riprese a farsi sentire, e gli infelici sepolti nelle trincee dicevano: adesso non sbaglieranno più, perché il generale ha puntato personalmente tutti i pezzi, tino per uno! Sa¬ ranno queste le ragioni per le quali Pétain sarà chiamato al comando supremo nel 1917, al momento delle ribellioni e degli scioperi militari, e furono queste le ragioni per le quali, prima, nel maggio 1916, fu sostituito nel comando da Ni velie, colui che sarà poco dopo il più infausto dei generalissimi della Grande Guerra. I politici volevano vittorie da esibire in Parlamento, a qualsiasi prezzo. Nivelle e il suo braccio destro, Mangin, che i soldati chiamavano « il macellaio », gliene diedero qualcuna nell'inferno di Verdun, a prezzo di stragi immani ed inutili. La loro filosofia era simile a quella di certi generali italiani della stessa epoca: i reticolati si sfondano con la volontà e con i baldi petti, non con le artiglierie (quanti morti invano, su tutti i fronti, in nome di questa retorica!). Comunque, la tragedia di Verdun a qualcosa è servita. I Allora, è stata lo spartiacque al di là del quale (anche se ci saranno Caporetto nel 1917 e lo Chemin des Dames nel 1918) incomincia il declino militare degli Imperi Centrali. Dopo, è stata un insegnamento, del quale si varranno soprattutto i gene- ! rali alleati della seconda guerra mondiale, avari delle vite dei loro soldati quanto spreconi di materiale. Rimane, soprattutto, un doloroso monito ai popoli d'Europa, a rinunciare a odiarsi e a dilaniarsi tra loro. Inascoltato dapprima, il monito sembra, adesso, più ascoltato. Fino a che punto? Ne va dell'esistenza stessa del nostro continente. Alvise Zorzi

Persone citate: Allora, Francia Philippe Pétain, Mangin, Verdun