"Contavo gli ahi fi dei morii In un anno, più di duemila, di Giuseppe Mayda

"Contavo gli ahi fi dei morii In un anno, più di duemila, Testimoni al processo contro i criminali nazisti a Trieste "Contavo gli ahi fi dei morii In un anno, più di duemila, Un sarto ebreo che sopravvisse al massacro grazie al suo mestiere e perché sapeva il tedesco, ha raccontato in aula alcuni episodi atroci - E' stata un'udienza lunga e drammatica (Dal nostro inviato speciale) Trieste, 18 febbraio. Oggi, con una lunga e drammatica udienza, il processo contro le SS Oberhauser ed Allers è tornato indietro nel tempo di trent'anni; i giudici sono ridiscesi nell'inferno della Risiera di San Sabba ed hanno ripercorso gli allucinanti «gironi» dei torturati, dei condannati a morte, dei deportati allo sterminio. In questo orrido viaggio a ritroso li hanno condotti, con le loro deposizioni, due degli otto testi ascoltati stamane, il sarto ebreo Giovanni Wachsberger, nativo di Fiume, e l'ex partigiano Francesco Sircelj, residente ad Isola d'Istria (Jugoslavia). Furono il suo mestiere e la conoscenza del tedesco a salvare la vita a Wachsberger. Un delatore aveva fatto la spia ai nazisti e il 15 aprile '44 il sarto, la madre Matilde e altri 150 ebrei dell'isola di Arbe — il campo di concentramento per ebrei e slavi creato dal fascismo e che il governo Badoglio solo sul finire dell'agosto 1943 aveva consentito che venisse sfollato — vennero catturati e rinchiusi alla Risiera di Trieste. «Ma un giorno — racconta il testimone — mi chiamarono perché parlavo tedesco ed ero sarto e mi mandarono nel magazzino vestiario a smistare gli indumenti. Quando terminai il lavoro gli altri ebrei erano spariti, compresa mia madre. Un carceriere mi disse che li avevano mandati in Germania. Non li ho più rivisti, neppure uno». Pubblico ministero: «Tutti gli ebrei?». Teste: «Si. Posso anche dire che fra l'aprile e il luglio 1944 almeno 300 ebrei arrivarono a San Sabba e tutti sparirono in deportazione». Al primo piano della Risiera c'era un laboratorio di sartoria, che lavorava per i tedeschi, diretto da Samuele Grini, il cui figlio Mauro — più tardi ucciso dai nazisti assieme alla moglie Maria Collini — accettò di diventare delatore della sua gente e, sotto i falsi nomi di «dottor Manzoni» e di «signor Verdi», imperversò in Friuli, nel Veneto, in Lombardia. Wachsberger fu mandato lì I e la sartoria divenne il suo I osservatorio: vide fucilare i d Pl due soldati italiani che avevano insultato un tedesco (prima di morire gridarono "Viva l'Italia"»), notò che tutti i venerdì sera il forno crematorio veniva fatto funzionare, fu testimone della cattura di un centinaio di giovani di Muggia poi soppressi in una sola notte dell'agosto. Nell'autorimessa, dove c'era l'anticamera del forno, vide due ragazzini tredicenni costretti a segare la legna che l'indomani sarebbe servita a bruciare i loro corpi, vide Allers e Oberhauser processare un gruppo di arrestati con un tribunale improvvisato nel mezzo del cortile della Risiera, vide una donna condotta all'esecuzione fuggire dalla cella urlando e i tedeschi inseguirla, afferrarla per i capelli e spingerla verso il garage, vide condurre alla morte cinque ebrei, Felice Mustacchi, Giuseppe Hassid, Levi Sida, Cohn e Neumann, «colpevoli» della sparizione di cinque monete d'oro, e sentì Mustacchi gridare giù per le scale: «Non ho fatto nulla, non ho fatto nulla!». Wachsberger aveva un mezzo per sapere quanti e chi erano gli uccisi di ogni notte; bastava che contasse gli abiti che i carnefici strappavano alle vittime e gettavano davanti al magazzino dove, l'indomani, alcune prigioniere dovevano raccoglierli e sistemarli nel deposito. «Proprio per questo — ha detto il teste rispondendo ad una domanda dell'avvocato Pincherle — io calcolo che, nell'anno in cui sono rimasto nella Risiera, le uccisioni siano state più di duemila». Fu lui, una mattina del febbraio-marzo 1945, a trovare nel mucchio degli indumenti anche il tailleur «beige» della signora Giannina Bordignon in Sereni, assassinata la notte prima perchè, al momento della scarcerazione, aveva chiesto alle SS di restituirle il denaro della borsetta, 30 mila lire. Francesco Sircelj, catturato nel novembre 1944 e chiuso nella cella numero 3 a San Sabba, giunse fino davanti al¬ l'autorimessa dove le vittime — ha detto — «venivano uccise a colpi di martello di te gno» e poi trasportate nell'an nesso forno: «Erano in nove — narra — e ci fecero spogliare nudi. Io avevo soltanto la camicia, un altro le mutande. Era notte fonda. In fila ci avviammo all'autorimessa, scortati dai tedeschi». Presidente: «Per entrare tutti insieme?». Teste: «No, mio alla volta». Presidente: «Sentì delle grida dentro il locale?». Teste: «No, soltanto un urlo di donna. Io non pensavo a nulla, mi sembrava un sogno. Avevo dinnanzi un ragazzo. Poi sarebbe toccato a me, ch'ero il penultimo della fila, e a un altro. All'improvviso, non so come e perché accadde, un tedesco si rivolse a noi ultimi due e gridò: "Los, los, in bunker", "Via, via, nelle celle". Mi salvai cosi, ma quanta gente ho visto portare alla morte... nella cella numero 16 c'era una ragazza, Milena, piangeva sempre; quando la condussero via mi disse: ho lasciato il bimbo al¬ la nonna, e con l'indice indicava se stessa. Non disse altro ». La corte ha poi ascoltato il teste e parte civile Jose Slosar, di Novo Hracine, paese a mezza strada fra Trieste e Fiume. Due suoi fratelli, Antonio e Franjo, erano entrati fra i partigiani di Tito e i nazisti catturarono la famiglia (i genitori, la sorella Maria, il fratellino quindicenne Mariano, il nonno ottantottenne) e la sterminarono nella Risiera. Il triestino Giuseppe Zancolich ebbe la figlia Artemia uccisa a San Sabba, e la stessa sorte subì Adele Piciarich sposata Forza, arrestata dai fascisti a Capodistria e mandata in Risiera perché, vedendo i tedeschi fucilare tre ragazzine che scrivevano motti antinazisti sui muri, aveva protestato gridando «vigliacchi». Della banda fascista dell'ispettore di p.s. Gaetano Collotti, persecutore e torturatore di partigiani, parlano poi le parti lese Francesca Misigoj, ch'ebbe il marito ucciso a San Sabba mentre lei venne deportata ad Auschwitz, e Giuseppina Cattaruzza, settantottenne, di Trieste, la cui figlia Luigia, allora di 24 anni, fu soppressa nel forno crematorio di San Sabba la notte dal 21 al 22 giugno 1944. «La banda Collotti — racconta a voce piena ma ferma la signora Misigoj — mi portò nella sua caserma dì via Bellosguardo, che qui in città chiamavano "Villa Trieste". Fui picchiata col bastone, al collo e alla testa, mi minacciarono di tagliarmi i seni e di fecondarmi artificialmente. Ma io mi dicevo: "Mio marito non c'è più, se muio io siamo morti tutti. E stetti zitta"». Giuseppe Mayda Trieste. Giovanni Wachsberger, il sarto ebreo che fu deportato nel Lager (Telefoto De Bellis per « La Stampa »)