Genoveva, sposa calunniata di Massimo Mila

Genoveva, sposa calunniata Un'opera di Schumann all'Auditorium Genoveva, sposa calunniata Poche opere si prestano così bene come la Genoveva di Schumann all'esecuzione oratoriale in sede di registrazione radiofonica. Perché, dicendo la cosa un po' brutalmente, in teatro Genoveva non sta in piedi. Invece è piena, riboc-1 cante di bella musica, ispirata e accuratamente lavorata. Salvo qualche occasionale fanfara fuori scena, volutamente convenzionale, forse non c'è neanche un pezzo in ; quest'opera, che sia tirato via o scadente. Gareggia col Tristano per la continuità del valore musicale. E allora perché in teatro non sta in piedi? Perché l'efficacia espressiva di cui è continuamente permeata non s'inserisce entro la struttura psicologica di personaggi consistenti. Genoveva, la sposa calunniata, Sigfrido, il marito credulo, il traditore Golo e la maga Margherita che ordiscono la congiura, non sono caratteri, ma convenzioni. L'espressione è tutta situazionale, come avviene nei Lieder, dove non ci aspettiamo di conoscere chi è che si lamenta, chi è che gioisce, chi è che s'inebria nel sentimento panico della natura: contano i sentimenti in sé, non chi li prova. In teatro è tutto il contrario. L'espressività della musica di Schumann in Genoveva è incessante, e si estende perfino a particolari episodici della messa in scena: voci lontane, sfondi corali di servi ribelli, partecipazione del paesaggio all'azione. Ma sono sempre eccellenti Lieder, a una o più voci (bellissime l'invocazione di Golo alla pace, nel primo atto, e la preghiera di Genoveva nel secondo), non stampati dal carattere di chi li pronuncia: sono «uno - che - invoca - la - pace», «una - che chiede - la - protezione - del Signore», non personaggi inconfondibili come quelli che sapevano stampare Mozart o Verdi o Mussorgski. La capacità schumanniana di trar partito da circostanze esterne si mostra al meglio nel terzetto dello specchio magico (una specie di diabolica televisione che ritiene immagini del passato), scena, questa, che riesce benissimo anche in teatro. L'opera è stata eseguita in tedesco, con vistosi tagli, ma con interpretazione molto attendibile da parte d'una buona compagnia di canto, guidata con incisiva vivacità dal direttore Gerd Albrecht. Protagonista il soprano Helga Dernesch, di voce non superlativa, ma dolcissima nell'espressione romantica e dolente. Ferma, sicura e vocalmente compatta come sempre il mezzosoprano Ruza Baldani (la Carmen del Regio). Metterei tra le buone scoperte il tenorino William Johns: anche lui non avrà una voce straordinaria, ma ha giustissimi il timbro e il piglio che quest'opera richiede, tra Lied e dramma romantico. Molto a posto anche il baritono Antonio Blancas nella parte di Sigfrido, e il basso Amis El Hage in quella sacerdotale di Idulfo. Sufficienti gli altri tre bassi Carlo Schreiber, Mario Chiappi e Arturo Testa, piacevoli le «voci femminili» di Maria Grazia Piolatto e Corinna Viozza, affiancate da quelle tenorili di Paride Ven! turi e Osvaldo Alemanno. E finalmente abbiamo anche avuto il piacere di sentire il coro ottimamente istruito da Fulvio Angius. Massimo Mila