Beethoven integro con l'Amadeus

Beethoven integro con l'Amadeus Serata all'Unione Musicale Beethoven integro con l'Amadeus Con due capolavori assoluti, Top. 59 n. 1 in fa maggiore, e Top. 131 in do diesis minore, il Quartetto Amadeus ha dato inizio alla nobilissima «sei giorni» in cui, alternandosi col Quartetto Italiano, darà fondo ai sedici Quartetti di Beethoven, più la Grande Fuga: ambizioso ma meritato omaggio che l'Unione Musicale vuole tributarsi nel proprio trentesimo anniversario. Sul cartoncino diffuso dalla società è riprodotta da La Stampa del 25 febbraio 1972 una frase in cui si esalta «l'eccezionale bellezza del suono» di questo complesso. E quasi mi prende il rimorso d'averne costretto il merito in un fatto così banale come quello di suonar bene. Al giorno d'oggi tutti, o quasi, suonano bene, così come tutti, o quasi, hanno l'automobile, il bagno, gli elettrodomestici e la televisione. Suonar bene, anche nel senso di rispettare i segni d'espressione, anche nel senso di «interpretare» correttamente è — per fortuna — quasi all'ordine del giorno: il livello medio dell'esecuzione musicale, rispetto a cinquantanni fa, ha fatto progressi giganteschi. E manco a farlo apposta, proprio sul piano della perfezione materiale dell'esecuzione l'altra sera il Quartetto Amadeus ha avuto qualche piccolo e insignificante screzio occasionale. Cos'hanno, allora, quegli interpreti — solisti, complessi o direttori — che suonano «più bene»? Hanno questo: che in qualunque momento della lo¬ ro esecuzione rifulge palese la piena consapevolezza del perché di quelle battute che stanno suonando. Perché sono lì e non altrove, quali nessi hanno con le battute che le precedono e con quelle che le seguono, vicine e lontane. Ogni momento dell'esecuzione è inserito in una specie di planimetria universale dell'intero pezzo. Be' — qualcuno potrebbe dire — ma anche questo non lo dovrebbero saper fare tutti? Beethoven non è mica uno sconosciuto. Eh, già, lo dovrebbero saper fare tutti... Ma quando accade veramente, allora accade come l'altra sera, che anche le opere più difficili, come i tre quarti d'ora di grande variazione del Quartetto in do diesis minore, passano via in un amen, senza porre problemi di comprensione, evidenti e chiari come la Vispa Teresa. E il pubblico non la finisce più di applaudire, e i quattro valorosi — Norbert Brainin, col grigio ciuffo ondeggiante sopra una faccia umoristica da mastino, Siegmund Nissel, Peter Schidlof, che arieggia un poco alla nobiltà di un Vittorio Gui giovane, e Martin Lovett, che sembra uscito da un romanzo di Huxley — vengono fuori più e più volte a ringraziare, senza strumenti, per indicare ben chiara la loro giusta determinazione di non aggiungere pezzettini parziali fuori programma alla presenza evocata da quei due granitici monumenti del pensiero musicale. m. m.

Persone citate: Beethoven, Huxley, Martin Lovett, Norbert Brainin, Peter Schidlof, Siegmund Nissel, Vittorio Gui