Il "test" spagnolo di Aldo Rizzo

Il "test" spagnolo Il "test" spagnolo Santiago Cari-ilio è il leader più avanzato sulla via del revisionismo antidogmatico (Dal nostro inviato speciale) Madrid, febbraio. Dentro il caso spagnolo c'è il caso specifico del comunismo spagnolo. Il governo riformista monarchico, il governo Arias-Fraga, ha molti dubbi sulla legalizzazione esplicita dei partiti politici in un prossimo futuro, ma non ne ha nessuno sul fatto che ne sarebbero esclusi, in ogni caso, i comunisti. Probabilmente teme non tanto la loro forza elettorale, che si preannuncia circoscritta, quanto l'impatto di una loro presenza ufficiale con quei settori, civili e militari, della società spagnola per i quali i comunisti restano i rossi, « los rojos », coloro contro i quali fu bandita « la cruzada ». Eppure, il « Partido comunista de Espana », fra i partiti comunisti d'Occidente, è il più avanzato sulla via del revisionismo antidogmatico e « pluralistico » e dell'indipendenza dall'Urss. E anche questo, poi, è sorprendente, trattandosi di un partito comunista uscito sconfitto da una sanguinosissima guerra civile e passato attraverso quattro decenni di repressione severa e costante, qualcosa che avrebbe dovuto, s'immagina, indurire le idee e i sentimenti. Sono almeno dieci anni che il pce sorprende gli osservatori spassionati del comunismo internazionale. Era infatti il 1966 quando il suo capo in esilio, Santiago Carrillo, criticò l'Unione Sovietica, decisamente e pubblicamente, per il processo a Juli Daniel e Andrej Siniavskij. Carrillo disse che si trattava di una violazione evidente di tutte le regole della legalità socialista. Un anno dopo scrisse un saggio, Nuevos enfoques a problemas de hoy (Nuove messe a fuoco di problemi d'oggi), nel quale dissociava solennemente il comunismo spagnolo da ciò che era « puramente russo nella rivoluzione sovietica », e cioè la repressione sistematica delle libertà politiche e il concetto del partito-Stato. Quando cominciò, ancora un anno dopo, la primavera di Praga, il pce si identificò senza riserve con la linea di Alexandr Dubcek. Nell'aprile del '68, la nuova direzione del partito cecoslovacco pubblicò il suo « programma d'azione », e sttbito dopo, su Mundo oblerò, il giornale ufficiale del partito spagnolo, stampato a Parigi, Santiago Alvarez, dell'esecutivo, scrisse che era « giusto il tipo di società socialista che noi vogliamo avere in Spagna ». Dopo l'invasione, la condanna fu esplicita, priva di concessioni formali. Il sospetto, o il timore, era che fosse un'evoluzione nel vuoto, tutta di testa, senza riferimenti precisi alle idee e agli umori della base, alle condizioni oggettive della sua lotta in Spagna, nella clandestinità. Ma in realtà il partito si era rinnovato e quasi ricreato anche in Spagna, e per certi aspetti soprattutto in Spaglia. Con la vittoria franchista nella guerra civile, il comunismo spagnolo, come forza organizzata, aveva praticamente cessato di esistere. Chi non era fuggito all'estero, era in carcere. Poi, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, era nato il fenomeno delle commissioni operaie, delle « comisiones obreras ». E con la lotta sindacale, clandestina e diffìcile, ma la sola efficace, di fronte a un padronato viziato dal sindacalismo finto del regime corporativo, i comunisti si erano ritrovati nel cuore dell'opposizione politica. Erano spesso comunisti nuovi, figli o eredi indiretti di un'altra generazione, e avevano il problema di rompere l'isolamento. Cercavano di risolverlo non sii complicate questioni ideologiche, ma nella lotta quotidiana per il salario e le condizioni di vita. Inevitabilmente cercavano i punti di convergenza ed eludevano quelli di dissenso con le forze sociali omologhe, di estrazione socialista e più ancora cattolica, aiutati in questo dal j mutato atteggiamento del clero spagnolo, nel clima post-conciliare. Questo voleva dire, per forza di cose, il bando di ogni settarismo, l'accettazione di un pluralismo di fatto, mentre a Parigi Carrillo faceva di tutto ciò una teoria. Non fu un processo indolore. Sul punto del distacco critico4dal partito-guida sovietico, si catalizzò un'opposizione interna, che poi sfociò in una scissione e nella costituzione di un partito comunista concorrente, ambiguamente appoggiato da Mosca. Dapprima si trattò di uomini come Eduardo Gar- cia, segretario organizzativo \ j del partito, e come Agustin Gomez, capo del comunismo basco. Poi fu la volta di Enrique Lister, un ex generale della Repubblica esule in Russia, e di altri personaggi dell'emigrazione, come Barzana, Uriarte, Saiz e Balaguer. Tutti insieme diedero vita, nel 1971, al « Partido comunista obrero espanol », che pretese di essere il vero partito comunista di Spagna, decretando l'espulsione di Santiago Carrillo, sotto l'ac- \ cusa di « deviazionismo opportunistico » e di « violazione sistematica delle regole del centralismo democratico ». Carrillo rispose che i transfughi, che aveva a sua volta già espulso dal pce, emanavano « il ripugnante o- \ dorè di Beria ». discriminazioni, senza la pretesa di «una democrazia a rate». Giudica Fraga Iribarne «un uomo intelligente», dalla «seria vocazione politica», e pensa che non potrà non convincersi che non può esserci democrazia «senza resistenza di partiti politici, compreso quello comunista». / partiti democratici tradizionali reagiscono all'approccio comunista con sfumature diverse. I socialisti popolari di Tierno Galvan non mostrano riserve serie Molto aperto, benché non acritico, è anche l'atteggiamento della sinistra democristiana di Ruiz Gimenez. Comprensivo, ma cauto, è quello del «Partido socialista obrero», il principale partito socialista spagnolo. Esso rifiuta «la concorrenza irrazionale», dannosa per i socialisti come per i comunisti, propone uno «scambio continuo di esperienze», una «discussione sulla strategia», un «confronto permanente delle posizioni». Il psoe è sensibile al seguente problema: ammettendo la sincerità strategica e non solo tattica della «linea Carrillo» (con la ovvia riserva, che vale per tutti i comunismi revisionistici dell'Europa dell'Ovest, che una tale linea non ha ancora una prova storica), è sicuro che essa potrà sopravvivere agli umori della base e dei quadri minori, quando questi avranno tutta la libertà di esprimersi, dopo quarant'anni di repressione, senza più alcun condizionamento tattico? L'esperienza delle «commissioni operaie», con tutto il suo valore di rinnovamento comunista dal basso, reggerà agli stimoli e alle tentazioni di una libertà totale? La moderazione di Carrillo continuerà ad essere la regola del comunismo spagnolo? Nicolas Sartorius, uno dei massimi dirigenti delle «comisiones obreras», reduce da lunghi anni di carcere, quando gli ho posto queste domande, mi ha dato una risposta parca. Ha detto: «Non vedo alcuna moderazione nella linea di Carrillo, ci vedo intelligenza e realismo. E' giusto cercare ciò che unisce il movimento operaio e non ciò che lo divide». Un esponente socialista mi ha invece detto che già si avverte una differenza, nei contatti con i comunisti, tra i dirigenti, perfettamente allineati con Carrillo, e i quadri minori molto più duri. Se è così, si tratta di un prezzo che la democrazia spagnola deve pagare, ed in questo i partiti democratici sono unanimi. A parte il suo diritto generale ad essere «legalizzato» come ogni altra forza politica, il comunismo spagnolo potrebbe davvero retrocedere nel massimalismo, se dovesse restare clandestino ed emarginato, con effetti dirompenti su tutta l'area di sinistra, tenendo presente la forte influenza sindacale del pce e dei comunismi regionali che gli fanno corona. Invece, la sua riammissione nel gioco democratico potrebbe accentuarne i caratteri di novità, interessanti anche oltre il quadro spagnolo. Ma è un nodo grave, oggi, per le resistenze e le paure del regime. D'altra parte, è un test, forse il test decisivo, della lungimiranza di Fraga. Aldo Rizzo