Milano: alle urne i rivoluzionari stanchi di Mimmo Candito

Milano: alle urne i rivoluzionari stanchi Domani votano gli universitari per il rinnovo dei "parlamentini,, Milano: alle urne i rivoluzionari stanchi Dopo l'esperienza dello scorso anno (votò il 18 per cento degli 800 mila studenti in Italia) si pensa che quest'anno la percentuale sarà inferiore - Tre tendenze a confronto : sinistra, cattolici, destra neofascista - Questo è il "funerale del Sessantotto" (Dal nostro inviato speciale) Milano, 10 febbraio. Sul portone della Statale c'è ancora la bandiera rossa per gli studenti morti «nelle guerre con la polizia», ma la rivoluzione per ora non si fa. I muri sono macchie di manifesti colorati, grandi barbe distribuiscono serie di volantini a ciclostile, giovedì si vota per il rinnovo dei «parlamentini». Nei corridoi freddi c'è silenzio, le aule sono vuote, i docenti fanno lezioni quasi deserte. «E' il funerale del Sessantotto», dice il professor Franco Catalano, con tristezza. Nell'Università della rabbia e dell'utopia, sette anni fa sono una preistoria. A febbraio del '75 c'era stato almeno il furore. Forse era l'ultima resistenza, l'illusione rabbiosa di credere ancora possibile un ritorno alle mobilitazioni felici d'un tempo, quando i «revisionisti» stavano zitti e l'assemblea celebrava mitici sacerdoti dalla dialettica bruciante. Ma la restaurazione era cominciata da anni, la crisi del '72 non lasciava molte speranze anche se Capanna e Toscano erano ancora là a difendere il Movimento. Si scandiva tuttora «Studenti operai uniti nella lotta», ma l'analisi politica era ferma. Il ministro Malfatti aveva provato una prima volta nel '74, partendo da una piccola università: l'articolo nove dei provvedimenti urgenti prevedeva la chiamata alle urne per designare i rappresentanti degli studenti negli organi di gestione degli atenei, cominciava Macerata, un angolo riparato, buone speranze di far passare la prova. I muri di mezz'Italia si riempivano di scritte: «Macerata insegna già l'elezione non si fa», solo 586 studenti su 4414 iscritti rispondevano alle speranze del ministro. Mentre il rettore Cataudella era costretto ad annullare le votazioni, Malfatti «sospendeva» in tutta fretta la sua legge studiando come trovare una soluzione alternativa. Ci pensavano per lui i deputati Ballardini-Cervone (e altri), che emendavano le norme cancellando con una leggina quel molesto intoppo costituito dal quorum minimo di votanti. E a febbraio d'un anno fa, riprendeva il rito elettorale. Gli schieramenti erano netti: da una parte gli extraparlamentari, dall'altra i «revisionisti» d'ogni partito. «Avevamo dichiarato l'astensione e il boicottaggio attivo — dice Giannantonio Rui. giovane leader del nuovo Movimento studentesco — ed era una decisione politica corretta e consapevole: dovevamo opporci a un tentativo di far passare come risposta ai gravi problemi dell'Università la nomina d'alcuni studenti; il rifiuto del voto era l'indicazione d'una alternativa, una realtà di base rispetto alla mistificazione di vertice». Per difendere questa realtà di base, i «gruppi» spinsero la loro pressione a limiti drammatici: corridoi fitti di spintoni — talvolta anche calci, pugni e sputi — furono il passaggio obbligato di chi voleva comunque votare, ci furono proteste amare, qualcuno ricordò le violenze squadristiche. Il 12 e 13 febbraio furono due brutti giorni; la nuova legge mortificava le speranze d'una riforma profonda, reale, dell'Università, lo scontro fisico rivelava l'ormai perduta capacità di fantasia politica. Ricominciava l'ibernazione. «Il Sessantotto era stato l'anno della rottura e della fantasia — dice Franco Catalano, il docente più amato dagli studenti milanesi — tornavano i progetti della società nuova die molti di noi avevano preparato nella lotta della Resistenza. Il '75, con i suoi provvedimenti furbeschi di promesse, rappresentava invece il ritorno alle strade battute del passato. All'ipotesi della democrazia diretta venivano sostituite le sparute rappresentanze studentesche: non si poteva cancellare l'intensa politicizzazione degli universitari, però si tentava di controllarne la "pericolosità" canalizzando ì fermenti verso le aule formali d'una nuova-vecchia Università di regime». Votava il 18 per cento degli ottocentomila studenti, le liste di sinistra (comunisti e indipendenti) prendevano più della metà delle preferenze; i gruppettari cantavano vittoria, ma lo stesso potevano fare i giovani della Fgci che avevano compiuto il primo passo per riprendere il controllo della scuola ai movimenti di lotta. E' passato un anno, l'Università ha completato la sua disgregazione, i giovani diplomati e laureati senza lavoro sono 350 mila. Ormai c'è solo paura e sfiducia, nessuno crede più all'Università se non come esamificio e diplomificio. Gregorio Paolini, 21 anni, leader dei giovani comunisti, dice: «Sarà lo schieramento delle forze democratiche a mostrare la via d'uscita da questo circolo chiuso, il voto di giovedì va legato ad una proposta concreta di cambiamento dell'Università, alla battaglia per l'occupazione, alla esigenza di nuovi profili professionali». I «parlamentini» hanno grosse ambizioni, però gli stessi studenti eletti riconoscono che i risultati ottenuti in questo primo anno «non sono buonissimi, anche se c'è dell'interessante». Quest'anno non ci sarà nemmeno la contestazione, «è proprio il funerale del Sessantotto» ripete Catalano. I «gruppi» non boicottano il voto, qualcuno ha anche presentato liste di candidati: «Avremmo preferito una scelta unitaria — dice Giannantonio Rui — ma non è stato possibile, e allora adeguiamo le nostre posizioni alle realtà locali. Come un anno fa con l'astensione, noi vogliamo esprimere una rappresentatività reale: dove c'è il Movi mento, là ci sono liste; nelle altre situazioni, crediamo sia giusto astenersi dal voto. Ma non faremo certo una battaglia per questo». Qualcuno ha voluto leggervi un riflesso della politica italiana, misteriosi segni d'una tendenza che traccia già le sue linee verso elezioni politiche anticipate. Sembra un peso eccessivo, le strategie dei «gruppi» hanno dogmatismi e rigore, non ancora raffinatezze dorotee. Il quadro politico universitario mostra tre tendenze a confronto, per giovedì: 1) la sinistra; 2) i cattolici; 3) i fa¬ scisti (ci sono anche i gruppi minoritari laici, ma esprimono una presenza puramente d'opinione). La sinistra, egemonizzata ormai dai comunisti, si offre in varie coalizioni: ci sono gruppettari, Fgci, giovani socialisti, aclisti, indipendenti. I cattolici ripetono quasi ovunque il collegamento tra democristiani e integra- J listi di Comunione e liberazio ne; gli fanno concorrenza liste di «cattolici popolari», con aclisti, sindacalisti della Cisl, cristiani per il socialismo. I fascisti fanno un grosso tentativo di rientro nell'Università: aiutati da grande dispendio di soldi e da bastoni, offrono liste d'uno spudorato Fronte della libertà; in molti atenei sono stati respinti, in molti altri tentano ancora con le provocazioni e la violenza. Le previsioni sono per una netta vittoria delle sinistre, «ma con una percentuale di votanti ancora più bassa dello scorso anno», dice Paolini. In una scuola che fornisce lauree di disoccupazione, il voto sembra l'inutile ritorno alle burocrazie dell'Unuri; un modello di democrazia universitaria che non sappia collegarsi in modo credibile a un nuovo modello sociale non è più occasione di confronto politico, al massimo è una formalità. E le formalità, anche ai rivoluzionari stanchi del '76, non interessano. Mimmo Candito Milano. Un gruppetto di studenti fa ressa davanti all'Università Statale (Foto Giovanna Nuvoletti e Grazia Neri)

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