Sono uniti con il terrore dalla casa della tragedia di Renato Rizzo

Sono uniti con il terrore dalla casa della tragedia Sono uniti con il terrore dalla casa della tragedia (Dal nostro inviato speciale) Ivrea, 30 gennaio. L'urlo della sirena e della folla si fondono in un unico rumore che lacera l'aria del lungodora, alle 15,33. Un migliaio di persone, superati gli sbarramenti di polizia e carabinieri, si accalca davanti al portone di via Cavour 76 da cui deve uscire il pulmino con i tre rapinatori. E' uno sdegno che esplode quasi con ferocia in grida e insulti, tutti vogliono urlare la loro condanna, c'è chi non riesce a trattenere le lacrime. E' la liberazione da un incubo, una veglia di venti ore che finalmente finisce. Il pulmino militare quasi non riesce a farsi strada tempestato di pugni. Dai vetri con le grate si scorgono i tre rapinatori: volto irrigidito in una smorfia di terrore, occhi dilatati sotto il passamontagna. Gridano anche loro, per la paura, «Via, via. ci ammazzano». Oggi pomeriggio hanno chiesto durante le trattative con gli avvocati che non li facessero uscire in strada fra la gente. «Siamo sicuri che ci lincerebbero, vogliamo delle garanzie». Ora li portano via proteggendoli dalla furia di un'intera città. L'epilogo di questa vicenda di terrore e morte incomincia alle 15,10, quando il furgone dei carabinieri entra nel cortile di via Cavour 76. E' un grande spiazzo comune a tre edifici, sulla sinistra una porticina che conduce all'androne del palazzo in cui sono ancora asserragliati i banditi. Le 15,20. Nascosto in questo cortile assisto all'ultimo atto della resa mentre dalla strada arriva il rumore della folla e l'abbaiare dei cani poliziotti. Tra i pochi funzionari e i carabinieri che attendono con le armi in pugno, c'è una tensione spasmodica. E' l'ultimo atto di un'operazione che dura ininterrottamente da venti ore, il momento più delicato. Al primo piano, dietro quelle finestre chiuse, la trattativa è in corso: i tre legali sono appena saliti accompagnati dal dottor Montesano. Un agente dice al collega che gli sta accanto: «Speriamo di non sentire spari». E' l'unico che parla, torna subito il silenzio. Passano due, tre minuti. Il piccolo uscio scuro si apre: ecco Pira, tra il capo della Criminalpol e il colonnello Schettino. Esce trascinando i piedi, il suo viso è ancora mascherato, ha i polsi imprigionati dalle manette. Una donna dagli ultimi piani del palazzo lancia un grido che sembra un singhiozzo: «Assassino, assassino». Lui si ferma per un attimo senza dire una parola. Punta i piedi, non vuol più camminare, lo trascinano a forza sul pulmino. Passa un altro minuto ed | esce Cappello. Barcolla per la stanchezza e la paura, tiene in avanti le mani incatenate come se volesse mostrare a tutti di essere ormai ridotto all'impotenza. Le 15,30, è la volta di Avenoso: indossa un impermeabile imbottito, si lascia guidare, come in trance, dal capitano Lotti fino al furgone. Ed ecco la sirena, ecco la gente che urlando chiede vendetta e fa ala all'automezzo sino alla procura della Repubblica. Le 16. La folla è diventata un mare. Si teme un assalto al palazzo dove il magistrato sta interrogando i banditi. I carabinieri devono impegnarsi in una carica per evitare che venga abbattuto il portone. A poche centinaia di metri intanto, nell'appartamento vicino a quello dove sono stati tenuti prigionieri, Dino Blessent e Silvana Quagliotti riemergono lentamente dall'incubo. Il bimbo è tra le braccia del fratello Federico. Ha gli occhi asciutti, ma la voce è piena di dolore: «Mi hanno detto di aver ammazzato mio papà». Tentano di tranquillizzarlo, e lui cambia subito discorso: «Non mi hanno mai picchiato, però». Gli dico: «Ma durante le telefonate di ieri notte ti ho sentito più volte piangere». E lui, ancora con quella voce piena di dolore: «Cei rano momenti in cui proprio non ne potevo più dalla paura». «Non hai mai sentito il bisogno di parlare con qualcuno della tua famiglia in tutte queste ore?». Risponde per lui il fratello: «Io questo permesso l'ho chiesto, ma mi hanno detto che era meglio non farlo, Dino ne sarebbe rimasto anche più scosso». Lo zio Cleto, 65 anni, piange in un angolo tenendosi fra le mani il volto ispido di barba: «Era un bambino forte, speriamo che si riprenda. Aveva un affetto incredibile ver il padre, lo seguiva sempre. Ma dovevano proprio dirglielo quei disgraziati che glielo avevano ucciso?». Renato Rizzo | Ivrea. Un sottufficiale dei carabinieri in appostamento

Persone citate: Avenoso, Dino Blessent, Montesano, Pira, Silvana Quagliotti

Luoghi citati: Cleto, Ivrea