UN INCONTRO "DISARMATO,, CON GLI ECONOMISTI di Stefano Reggiani

UN INCONTRO "DISARMATO,, CON GLI ECONOMISTI UN INCONTRO "DISARMATO,, CON GLI ECONOMISTI Gli eretici della sinistra La loro "scuola" è a Modena, quasi tutti si sono specializzati a Oxford: sono gli unici riservisti di un esercito di generali (Dal nostro inviato speciale) Modena, gennaio. Sono gli eretici della sinistra, più vicini al Manifesto che al pei, senza voglia di tessere e di tutele, sofferenti del potere e dei compromessi; un poco astratti, un poco presuntuosi. Vengono quasi tutti da una specializzazione a Cambridge (Inghilterra) dopo un'ottima laurea in Italia: sono economisti appena sopra i trenta anni, hanno visto la contestazione da vicino, adesso riflettono sull'università com'è. A Modena c'è una loro « scuola », non ufficiale, ancora in via di aggregazione: stanno uniti per la comune tendenza verso la sinistra, l'uguale preparazione di fon¬ do (letture, problemi, miti), la condivisa intolleranza verso gli eclettici e gli approssimativi. Considerano loro nonni in economia studiosi come Sylos Labini, Caffè, Steve; tengono per cugini o fratelli maggiori Andreatta e Forte. « In economia le generazioni passano in fretta ». Al fondo della loro sicurezza e della loro vanitosa sfida eterodossa c'è un disagio fortissimo, una specie di disincanto lucido che li rende reticenti quanto alle professioni di fede e agli atti dì speranza. Eppure sono loro gli economisti più nuovi, gli unici riservisti che abbiamo in un esercito strettissimo, fatto in gran parte di generali. Il nostro confronto « disarmato » li esige subito con un misto di inquietudine e di interesse. Il capo scuola del gruppo è Michele Salvati, allievo di Sylos Labini e docente a Modena di Economia industriale. Con lui cinque anni fa vennero a Modena, nella facoltà di Economia e commercio da poco istituita, tutta vergine, tutta da inventare, altri trentenni: Biasco, Vianello, il figlio di Natalia Ginzburg, Andrea; poi si aggiunsero Lippi, Santi (figlio dì Fernando), De Vero, Fabiani (cognato di Napolitano). Salvati ha 38 anni; a Cambridge ha studiato con Sraffa e la Robinson in un momento esaltante della teoria economica dopo Keynes. Gli allievi della scuola anglo-italiana sono i più duri avversari, i critici fondamentali dell'economia neoclassica rilanciata da Samuelson, il grande teorico di parte americana. Con i suoi studi Sraffa, italiano d'origine, ha dato ragione ad alcune proposizioni marxiste. Perciò si può essere sraffiani e marxisti senza alcun conflitto interiore: naturalmente marxisti alla maniera di Cambridge, con un carico di gravosi confronti. L'insegnamento dell'economia alla facoltà di Modena è il segno di una schizofrenia inevitabile: da una parte si forniscono agli studenti i metodi interpretativi degli economisti neoclassici, dall'altra li si arma delle critiche del binomio Sraffa-Robinson. Alla sorgente della presunta schizofrenia c'è una condizione costrittiva che sì può definire in questo modo: gli studi economici sono l'espressione, spesso il sostegno della società in cui vivi e lavori. Ma loro, gli eretici di Modena, come ci stanno dentro la società e come possono agire, essendo economisti, da sinistra e da sinistra della sinistra? In altre parole: qual è oggi, nella società italiana, il ruolo di un economista il quale, rifiutando più o meno globalmente la solidarietà col potere, si professi tendenzialmente extraparlamentare. Le premesse alle domande (che loro sentono come una brutale richiesta di connivenze politiche e partitiche) sono due, secondo Salvati e compagni, l'una conseguente all'altra. Nella nostra società un economista, quando dalla teoria passa all'interpretazione diventa anche un ipotetico manager: studia il ciclo economico e suggerisce (come i keynesìani fanno istituzionalmente) il modo per controllarlo. Dunque (seconda premessa) egli suppone di agire in una società sufficientemente stabile, o per lo meno non modificabile violentemente nei tempi medi e brevi. L'economista dissidente o tentato di esserlo, deve nel frattempo prendere atto di non abitare sulla luna, ma sulla terra e per di più in Italia: la constatazione, quando giunge al livello di autentica consapevolezza, può diventare uno choc. Facciamo un esempio, perché il nostro viaggio disarmato si nutre solo di piccole parabole, le più ridotte e utili. Prendiamo un economista modenese (non facciamo nomi) che sia eccezionalmente iscritto al pdup, partito di unità proletaria per il comunismo nato dalla fusione tra Manifesto e psiup (dacché tanti giovani economisti sono di nascita psiuppina). Egli ha letto domenica sul manifesto le richieste programmatiche del suo partito in questo momento di crisi governativa: quelle economiche e quelle politiche. Tra le prime, la difesa assoluta e intransigente del posto di lavoro, dell'occupazione. Egli sa, come economista, che la richiesta conduce, se attuata nella sua forma più rigorosa, a un forte squilibrio nella bilancia dei pagamenti con l'estero, a una rinnovata e affrettata fuga di capitali, all'uscita sostanziale dell'Italia dal tipo di sviluppo che si indica come europeo od occidentale. Se accetta, come è naturale, le richieste del suo partito, implicitamente e consapevolmente (ma tacendo o discutendo?) accoglie la prospettiva, non utopistica, soltanto logica, che «salti tutto », cioè che il sistema vada a pezzi per un'esplosione economica prima che politica. Osserva Salvati: « A questo punto l'economista come tale non ha niente da dire. Il fatto diventa politico ». Ci sembra che Salvati e i suoi compagni vogliano enuncìare questo assioma: la rivoluzione non è una quantità economicamente valutabile. Ovviamente il dopo-rivoluzione può essere invece un buon campo da seminare e coltivare. Dicono a Modena: « La Russia è un grande esempio di società stabile, l'ideale per un ingegnere economico, il sogno di chiunque voglia progettare, andando quasi sul sicuro, un piano di sviluppo ». Anche se c'è il dubbio, per quanto riguarda la Russia, che « rappresenti una forma estrema di capitalismo, o, se si vuole cambiare segno, una involuzione burocratica del socialismo ». Aggiunge Salvati col sorriso puntuto del dissenziente (ha scritto prima su Quaderni rossi, adesso su Quaderni piacentini): « Credo che in Russia ci allontanerebbero dalla cattedra. Saremmo i primi presi di mira ». Ma allora, che fare? Il ruolo dell'economista critico in una società come quella italiana sarà di fornire previsioni e informazioni ai partìti della sinistra e ai sindacati. Dirà: se fate questo, succede questo e quest'al¬ tro. L'economista del Manifesto di cui prima abbiamo tracciato il conflitto ideologico-professionale, dovrebbe cioè chiarire con estrema limpidità ai suoi compagni e agli altri lettori lo sviluppo « tecnico » delle loro richieste e sperimentare il modo in cui funziona il modello economico italiano, posto che ci sia ancora. In una parola: toccherebbe agli studiosi della sinistra extraparlamentare il ruolo dei riformisti, i quali « hanno un compito più difficile talvolta dei rivoluzionari », perché s'è visto che dopo le rivoluzioni bisogna riformare (nel senso di rifare) tutte le strutture, senza dimenticare la « scienza » imparata prima. Per fare almeno gl'interpreti della riforma la via è lunga: chiede un grande, intenso dibattito scientifico, un'analisi di tutte le componenti del quadro. « Ci siamo accorti che non sappiamo nulla, non abbiamo dati e informazioni attendibili sul nostro Paese. Non possediamo un ritratto credibile dell'Italia. Chi sa, per esempio, come è realmente distribuito il carico fiscale? Chi sa come sono realmente divisi i gruppi sociali e come si formano le nuove aggregazioni e i nuovi centri di interesse? ». Dice Salvati, con rammarico e insieme ammirazione, perché si tratta alla fine del suo maestro: « Sylos Labini ci ha preso in contropiede con il suo libro sulle classi sociali. E' una fortuna che sia almeno socialista. Ma era già capitato che un liberale, lo storico Rosario Romeo, prendesse in castagna i gramsciani ». E' chiaro che l'educazione a Cambridge e l'uso del metodo economico come interpretazione supplementare della realtà (un andar quasi sicuro dove gli altri, anche tanti politici che sappiamo noi, brancolano come ciechi) han reso gli eretici di Modena impermeabili ad ogni ottimismo e anche ad ogni forma di utopia immediata. La pianta che coltivano più volentieri, in questo simili ai cittadini disarmati, è quella della preoccupazione e perplessità sui mezzi. « I modelli economici elaborati dai calcolatori non servono più che tanto. Tutto dipende da chi li manovra, da chi imposta i dati e li applica ». Addirittura: « Tutto dipende dalla fantasia di chi gestisce il modello ». Quanto alle dottrine consolidate, si può dire ormai senza bestemmie che « anche Marx non serve più, non si possono applicare meccanicamente le sue interpretazioni alla nostra società. Bisogna rinnovare gli strumenti conoscitivi coerentemente con la società che si è rinnovata ». La recessione tocca, si capisce, anche gli eretici di Modena. Salvati: « Invidio la sicurezza di Andreatta e la sua fiducia; ma certo credo anch'io che ci sarà la ripresa. Bisogna vedere in che modo, spiegare perché l'Italia caschi sempre per prima nelle crisi e ne esca per ultima. L'equivoco è di credere che noi ci muoviamo nel sistema capitalistico, anzi di credere che esista il sistema. No, l'Italia è un sottosistema capitalistico, che ha un forte numero di variabili sociologiche, che ha fenomeni come la Montedison e la borghesia di Stato ». Ci sono, per esempio, dilemmi concreti: « Noi sappiamo, ad un certo punto, che bisogna muovere quella tale leva, ma a quella leva è aggrappato un notabile mafioso ». Allora, che si fa? Sull'onda dell'indignazione Salvati arriva ad una proposta degna del più impavido riformista: « Se avessimo in Italia cinquecento imprenditori illuminati in grado di collaborare col governo, potremmo tentare una politica economica efficiente ». Anzi: « Su taluni problemi l'analisi non può che essere uguale, sia per chi sta col potere, sia per chi se ne tiene lontano ». Poi finalmente si arrende e si confessa: « Non dovete conservare troppe speranze negli economisti, voi cittadini. Io, per me, ne ho tanto poche. La tecnica e l'interpretazione, anche la più sofisticata, non hanno mai risolto i grandi problemi sociali ». Stefano Reggiani