Corno d'Africa, un'esca incandescente di Francesco Fornari

Corno d'Africa, un'esca incandescente I rischi delle "guerre locali,, che stanno sconvolgendo il Continente Corno d'Africa, un'esca incandescente Le iniziative di pace intraprese dal presidente egiziano Sadat. hanno fatto passare in seconda linea altre notizie preoccupanti provenienti dall'Africa. La tensione cresce di giorno in giorno fra Etiopia e Somalia, ormai si può parlare di vera e propria guerra; la ribellione eritrea al potere centrale di Addis Abeba ottiene successi su successi; in Rhodesia non si contano più le vittime della repressione; in Sudafrica le manifestazioni di protesta si fanno sempre più frequenti e da un momento all'altro può scoppiare una nuova Soweto. E' tutto un Continente che si sta trasformando in un gigantesco campo di battaglia. Ingerenza delle superpotenze e delle medie potenze che vogliono instaurare un nuovo tipo di colonialismo, ùvalità tribali, lotte per il potere, tutto contribuisce ad aggravare una situazione già precaria. Si assiste a repentini cambiamenti di fronte nel cambio delle alleanze, la coerenza ideologica, se mai è esistita, oggi non esiste più. Nella grande battaglia per la sopravvivenza che stanno combattendo molti regimi africani acquista posizioni di privilegio chi può dare aiuti economici più sostanziosi. L'anno che sta per finire è stato caratterizzato da un'improvvisa esplosione di violenze nel Corno d'Africa: sotto una pioggia di petrodollari sauditi ed in mezzo al fracasso delle armi, una mezza dozzina di Paesi africani ed arabi sono coinvolti in questo sanguinoso confronto, complicato da rivalità etniche e religiose, la cui posta è molto più alta del semplice controllo del Mar Rosso. In questo settore del continente africano si stanno decidendo le sorti del predominio americano e sovietico sut «corno esplosivo»: ed è col sangue degli africani che viene pagato l'esoso tributo alle due superpotenze. Etiopia ed Eritrea, ai ferri corti fin dal 1961, quando i primi partigiani eritrei hanno contestato l'annessione della loro provincia all'impero di Hailé Selassiè, sono ormai impegnate in una guerra fratricida che ha provocato migliaia di vittime. Dopo il «putsch» militare che nel settembre 1974 ha rovesciato il Negus, l'Etiopia (il secondo Paese africano per densità di popolazione) ha attraversato un difficile periodo dì disordini interni che l'ha portata all'orlo della disintegrazione. Delle quattordici province che formano il suo impero, sette sono in fermento: di queste, alcune sono interamente nelle mani dei partigiani dei movimenti insurrezionali o dei fronti di liberazione. E' nella provincia eritrea che si gioca l'avvenire del regime militare etiopico. Oltre il 90 per cento del territorio è ormai sotto il controllo dei movimenti di liberazione, la maggior parte delle città sono occupate od assediate dai guerriglieri, si combatte vici-1 no ad Asmara, la capitale. Dopo anni dì guerriglia, all'inizio del mese dì giugno i partigiani sono scesi in campo aperto, attaccando le guarnigioni militari etiopiche. In tre settimane, a partire dalla metà di giugno, più di trentamila soldati sono stati fatti affluire da Addis Abeba verso l'Eritrea. Istruiti da esperti israeliani e da tecnici cubani, equipaggiati con armi moderne, continuamente riforniti di carri armati, cannoni, lanciarazzi provenienti dall'Unione Sovietica, questi uomini possono contare anche sull'apporto fornito dall'aviazione, dove agli «F 5» americani si sono affiancati adesso i modernissimi «Mig 21» di Mosca. Per contrastare i successidei partigiani, che hanno fatto cadere una dopo l'altra quasi tutte le guarnigioni ed hanno stretto d'assedio i pun ti vitali della provincia (il porto di Massaua, la ferrovia tra Addis Abeba e Gibuti, ed infine la stessa Asmara), la giunta militare del col. Mengistu ha lanciato nella lotta i centomila uomini della «milizia contadina», reclutati a forza nei paesi e nelle città, mandati sul fronte dopo un'istruzione sommaria impartita da istruttori cubani e sudyemenìti. La lotta diventa ogni giorno più feroce, sinora la guerra sanguinosa ha causato più di centomila morti, oltre mille villaggi distrutti, più di 700 mila eritrei sono stati costretti ad abbandonare le loro case, di questi oltre 200 mila si sono rifugiati nel Sudan, una nazione che non nasconde le proprie simpatie verso i movimenti di liberazione eritrei, una delle frontiere calde con l'Etiopia, con l'esercito sempre sul piede di guerra. Nella provincia dell'Ogaden, territorio conteso fra Etiopia e Somalia, si combatte da sei mesi una guerra feroce. Le due nazioni sì fronteggiano ormai apertamente: anche se il governo di Mogadiscio ripete che nell'Ogaden combattono soltanto formazioni di partigiani, tutto il mondo sa che nella provincia contesa sì danno battaglia gli eserciti dei due Paesi. Alla metà di novembre i seimila consiglieri militari e tecnici russi che si trovavano in Somalia sono stati mandati via. Dopo 17 anni di collaborazione, il governo somalo ha troncato bruscamente ogni rapporto con gli alleati sovietici, colpevoli di essersi schierati a favore dell'Etiopia, il nemico di sempre, nel conflitto per l'Ogaden. Addis Abeba, che fino al 1974 era slata una roccaforte americana nel Corno d'Africa, oggi è sotto la protezione del Cremlino; Mogadiscio, capitale di uno Stato socialista, rotte le relazioni con Mosca si sta spostando nell'orbita americana ed ha intensificato ì rapporti con i Paesi arabi. Ancora una volta l'Arabia Saudita ha una parte di primo piano nel complesso gioco politico-diplomaticn che si disputa sulla scacchiera africana. Dopo aver ricondotto nel girone occidentale l'Egitto ed il Sudan, il governo di Ryad sta intervenendo con decisione anche a Mogadiscio. L'Arabia Saudita si è mostrata generosa: milioni di petrodollari sono finiti nelle banche somale, armamenti di ogni tipo vengono comperati da Ryad per essere sbarcati nei porti somali di Berbera e Mogadiscio. L'anno scorso, per cementare l'amicizia fra i due Paesi, il monarca saudita aveva fatto costruire una sontuosa moschea a Mogadiscio: quest'anno conferma i propri sentimenti amichevoli mandando missili e cannoni per i «partigiani» somali che combattono nell'Ogaden. Nell'aprile scorso la Russia aveva tentato di trovare una composizione pacifica della vertenza, ma le visite di Podgorny e del premier cubano Fidel Castro si erano risolte con un fallimento. Attestata sull'altopiano etiopico, adesso l'Unione Sovietica cerca una riconferma alla propria strategia africana, affidando alle armi più sofisti ate con le quali rifornisce l'esercito etiopico il riscatto agli ultimi avvenimenti. Attorno ad Harrar e Dire-Dawa, da oltre tre mesi migliaia di uomini combattono e muoiono in una guerra senza quartiere che non li riguarda. Qualunque sia lo scopo dichiarato di questo conflitto (l'indipendenza dell'Ogaden per i somali, la difesa di una propria provincia dall'invasione per gli etiopici), la verità, come si è visto, è sempre un'altra. Francesco Fornari

Persone citate: Fidel Castro, Negus, Sadat, Selassiè, Soweto