Anche la pace ha un costo ma la guerra molto di più di Mario Salvatorelli

Anche la pace ha un costo ma la guerra molto di più I CALCOLI DI ISRAELE E I COLLOQUI BEGIN-SADAT Anche la pace ha un costo ma la guerra molto di più (Dal nostro inviato speciale) Tel Aviv, dicembre. Israele era nato come un paese agricolo. Poi, le necessità della difesa e quelle di dar lavoro a milioni d'immigrati hanno fatto sorgere le industrie. La loro dislocazione è stata programmata dal governo, non tanto secondo scelte economiche, quanto in base alla mano d'opera da occupare. Ora questa politica dev'essere abbandonala. All'associazione degli industriali osservano: «E' come se Begi/i ci avesse dello: non siete più in Israele, ma in Italia o in Svizzera, siete in un mercato aperto. Ci sono imprese che non potranno farcela? Pazienza, ma quelle die lo potranno, andranno lontano». La necessità di ristrutturare l'economia del Paese, in senso più produttivistico, comporta il pericolo della disoccupazione, che si aggiungerebbe alla realtà dell'inflazione, il ;ui tasso, attualmente del 40 per cento annuo, ci dice il vice ministro delle Finanze, Ezechiele Floumine, «si spera di ridurre entro il 1980 al 15 per cento». Tra questi due obiettivi «pi citici», ristrutturazione e dellazione, rischia di rimanere schiacciato il «pieno impiego» bellico. Gideon Bcn-Israel, capo dell'ufficio studi congiunturali dell'Histadrut, il sindacato unitario d'Israele, teme questa nuova politica economica. «Non credo alla disoccupazione, ci dice, come cura per stimolare la pro¬ duttività e rilanciare l'economia. E' vero che Begin non vuote una grossa disoccupazione, ma a me fa l'effetto d'una donna che dica: sono solo un po' incinta. O lo è, o non lo è. In Israele oggi non c'è disoccupazione, ma con questa nuova politica l'avremo, e quando si incomincia con il 2 per cento, si fa presto ad arrivare al 10». L'Histadrut ha oltre 1 milione 400 mila iscritti, 1*85 per cento dei lavoratori d'Israele, casalinghe comprese, ma non si limita a curarne gl'interessi sindacali. Attraverso la Koor, una finanziaria che si potrebbe paragonare al nostro Iri (con la differenza che Tiri è dello Stato), l'Histadrut possiede il 9 per cento delle imprese industriali, che forniscono 1*11 per cento della produzione e il 17 per cento delle esportazioni complessive. In più, acquista e distribuisce i prodotti delle officine meccaniche installate in molti Jfcjbutzim, le fattorie agricole collettive, soprattutto per occupare i lavoratori anziani. Inoltre, tramite la Musha, il sindacato controlla il 70 per cento della produzione agricola. Infine, con un sistema di cooperative, gestisce buona parte dell'attività edilizia. Si calcola che l'Histadrut abbia in mano il 22 per cento dell'intero prodotto nazionale israeliano. Il sindacato, quindi, è un interlocutore bifronte del governo: come rappresentante dei lavoratori e come operatore economico. Gli industriali privati vedono di buon occhio questo sindacato-imprenditore, perché lo considerano un «calmiere» dei salari. Anch'esso deve far quadrare i bilanci e misurare i costi di produzione in base ai prezzi di vendita che si possono spuntare sui mercati internazionali. Oggi, con la nuova politica «liberale» del governo, l'Histadrut sarà posto, più drammaticamente di prima, di fronte alla scelta tra mantenere, ovunque e comunque, i livelli di occupazione, e il gestire con criteri di economicità le sue aziende, non più protette dalla politica assistenziale di forti premi alla produzione e all'esportazione, e di pesanti tasse all'importazione, praticata dal governo laburista per trent'anni. Accanto alle due commissioni «ufficiali», una di politici, l'altra di militari, costituite nel quadro dei. colloqui tra Israele ed Egitto per la pacificazione in Medio Oriente, sono forse al lavoro, nell'ombra, commissioni di esperti economici. «La pace, come la guerra, ha un prezzo, ci ha detto il capo dell'opposizione, Shimon Percs, ma credo che senza la pace la situazione economica diventerebbe più dura. Quindi, spero nella pace e sono convinto che il 1978 sarà un anno di grandi decisioni». Richard H. Klotz, direttore di «marketing» della Eleo, un'industria elettromeccanica, osserva: «La nuova politica del governo vuole facilitare gl'investimenti nei settori di tecnologia avanzata, e la creazione d'imprese ad alla intensità di capitale, piuttosto che ad elevata occupazione». Questo perché in Israele e arrivata e continua ad arrivare gente da tutto il mondo, in parte considerevole con una preparazione e un'attitudine professionale assai basse. «Così succede, aggiunge Klotz, che in numerose industrie il costo medio del lavoro per unità di prodotto è più alto che nella Germania Occidentale». Con il nuovo corso dell'economia e, si spera, della vita stessa d'Israele, questo stato di cose non può durare. L'agricoltura non dovrebbe avere molto da temere. Altamente meccanizzata, specializzata nelle colture più redditizie, gestita ormai dalla seconda, dalla terza generazione di membri delle fattorie collettive, i kibbutzim, e dei villaggi cooperativi, i moshavim, ha una bilancia commerciale assai attiva e conta sull'abbattimento delle tariffe doganali al 20 per cento di quello originane, a partire dal 1978, pjr sviluppare le sue esportazioni nella Comunità europea. Nell'industria, invece, ci saranno settori che dovranno rassegnarsi a un drastico ridimensionamento, come il tessile, forse anche l'industria alimentare, che già trasforma tutto ciò che l'agricoltura può passarle. Si punta sulla ricerca, cui la nuova politica economica intende accrescere il proprio appoggio, in base a tre tipi di aiuti statali, che vanno dall'80 al 30 per cento della spesa, a seconda che i progetti siano d'interesse nazionale, settoriale, o riguardino prodotti sostitutivi dell'importazione. C'è la lavorazione dei diamanti, la cui «Borsa», la più importante del mondo, occupa il più bel grattacielo di Tel Aviv. Ma si attende soprattutto la riconversio¬ ne pacifica di molte industrie, che le esigenze della difesa hanno spinto molto in alto qualitativamente, e che da queste posizioni d'avanguardia potranno competere con le analoghe industrie estere. E si attende che, con la pace, cessi il boicottaggio arabo alle aziende occidentali che intrattengono rapporti con Israele, causa di gravi danni, soprattutto in termini di mancati affari, per l'economia di questo Paese. Senza averlo mai sperato, forse neppure pensato, sono trent'anni che Israele si prepara alla pace. Presso Tel Aviv, in una landa allora deserta, poi trasformata in un parco ombroso, è sorto l'Istituto Weizmann. Vi lavorano duemila ricercatori, impegnati nella lotta contro il cancro, le affezioni cardiache, l'invecchiamento, ma anche nello studio di innovazioni in agricoltura e nell'industria." La loro attività, pur molto nota nel mondo, è condizionata dallo stato di guerra. Chi ci accompagnava nella visita ci ha detto: «Nessuno di noi osa porre la propria speranza nella pace, sarebbe troppo bello. Tuttavia, se così sarà, questo istituto diventerà molto importante». E questo vale non solo per il Weizmann, ma per tutto Israele. Mario Salvatorelli

Persone citate: Begin, Ezechiele Floumine, Gideon Bcn-israel, Klotz, Richard H. Klotz, Shimon Percs, Weizmann