Rubens nella ricca Genova

Rubens nella ricca Genova Rubens nella ricca Genova Una mostra in Palazzo Ducale dedicata al maggiore interprete della cultura fiamminga (Dal nostro inviato speciale) Genova, dicembre. L'esposizione «Rubens e Genova», aperta nel capoluogo ligure in Palazzo Ducale (che si vorrebbe al più presto restituito ad un suo decoro), costituisce probabilmente l'ultima delle manifestazioni organizzate nel quarto centenario della nascita del maggiore interprete della pittura fiamminga. Nella sua articolata struttura didattico-documentaria la rassegna mira — come scrive Giuliano Frabetti, uno dei suoi ordinatori — a mettere in evidenza «i rapporti intercorsi tra Rubens e restablishment genovese, nel quadro dell'intera situazione sociale, economica e storica dell'epoca». Con ampio ricorso a riproduzioni e fotografie, anche a colori, la mostra si propone di ricostruire il corpus dei «Rubens genovesi» che dovette comprendere alcuni ritratti datati fin dal 1606 e successivi acquisti (anche posteriori alla morte dell'artista) sicché come risulta dalle sezioni curate da Giuliana Biavati e dal Frabetti, tra il Sei e il Settecento non poche delle famiglie genovesi più in vista dovevano conservare nelle loro quadrerie opere sacre o profane di Rubens che soltanto all'inizio dell'Ottocento lasciarono Genova per iniziativa di abili ed intraprendenti mercanti londinesi. Non minore interesse per la cultura figurativa rivestono anche la sezione curata da Laura Tagliaferro su «Rubens e alcuni genovesi» e quella in cui ancora la Biavati ha illustrato certi «momenti rubensiani nella pittura genovese»: con la ricerca di suggestivi riflessi tra le opere del maestro fiammingo e alcuni dipinti dello Strozzi, del Castiglione, di Valerio Castello e Gregorio De Ferrari; compreso Van Dyck, allievo prediletto di Rubens, che a Genova avrebbe poi avuto un proprio ruolo. A dare stimolante avvio alla rassegna è però la sezione storico-economica curata da Giorgio Doria. Il Seicento è veramente il secolo dei genovesi e la mostra lo dice nel modo più convincente documentando il tempo di Rubens, quando Genova domina un vasto movimento finanziario sul quale fonda la propria prosperità, rimeritando il titolo di «Superba». Tra la metà del Cinquecento e la morte di Rubens, è infatti l'epoca in cui un immenso tesoro giunge in Spagna dall'America con onerose scorte di navi da guerra. Si tratta di 160.310 chilogrammi d'oro e di 15.376.980 chili d'argento dovuti a spoliazioni continue e allo sfruttamento minerario di Messico e Perù. I metalli preziosi approdati a Siviglia, in buona parte erano avviati ai porti di Cartagena e di Barcellona e di qui a Genova che diviene la capitale di un'enorme operazione di «riciclaggio». Un intenso giro di «lettere di cambio», tra le «fiere» di Medina del Campo, in Spagna, e di Piacenza, in collegamento con gli operatori economici genovesi di Anversa (che in quel periodo annoverò ben 147 titolari di aziende bancarie o commerciali) sta a fronte di un circuito valutario di oltre 370 milioni di scudi d'oro, circa 50 milioni dei quali spesi nelle guerre sostenute dalla Spagna, dalla rivolta delle Province Unite alla guerra dei Trent'anni. E si calcola che i profitti dei Genovesi dovessero aggirarsi sul 40 per cento annuo dei valori trafficati. Somme da capogiro, che rappresentano la crescente potenza economica sulla quale poteva ben sostanziarsi anche l'interesse reciproco tra Genova e Rubens che, sceso in Italia quando ormai da due anni era stato iscritto come «maestro» nella Gilda di S. Luca di Anversa, ventisettenne appena aveva già visitato le più importanti città della penisola ed aveva conosciuto i tesori degli Asburgo conservati a Madrid e all'Escurial, compresi i settanta «Tiziano» di cui aveva eseguito qualche copia, tutto preso da quel colore, sebbene soltanto verso il '30, nella ritrovata fecondità pittorica, riuscirà a penetrarne più profondamente lo spirito, in una vera e propria maturazione interiore. Fin da quel viaggio, nel tornare a Mantova, Rubens aveva avuto i primi suoi rapporti con i banchieri genovesi, tra i quali Niccolò Pallavicini, banchiere di Vincenzo I, che doveva rimborsarlo di spese straordinarie. Anche da loro, forse, l'artista imparò ad essere scrupoloso «impresario» di se stesso e della sua bottega, ma nessuno più di lui, probabilmente, seppe tener conto di quanto nei quadri avesse messo di mano sua e di quanto invece fosse dei lavoranti, proporzionandone il prezzo. Per quanto rari e brevi abbiano potuto essere i soggiorni di Rubens a Genova, il legame tra l'artista e la città fu invece dei più profondi, e a testimoniarlo è addirittura un libro su «I Palazzi di Genova» che il maestro fiammingo pubblicò ad Anversa in due parti distinte nel 1622 e nel '26 (riunite fin dalla riedizione del 1652), con disegni che già nel 1607 aveva fatto appositamente eseguire a Genova, per illustrare facciate, piante e sezioni di interni di numerosi edifici, vedendovi però, al di là delle pure forme architettoniche, i loro contenuti umani e sociali. Un intero settore della mostra curato da Ida Maria Botto e da Ennio Poleggi è stato quindi giustamente riservato a questo libro, documento di una «cultura abitativa» che tuttora ha conservato una sua validità. Con quest'opera Rubens — come aveva scritto — aveva inteso proporre a modello della ricca borghesia delle Province Oltramontane quelle «fabbriche bellissime e comodissime, a proporzione più tosto de famiglie benché numerose di Gentiluomini particolari, che di una Corte di un Principe assoluto». E non è senza significato che ancora nel 1970. uno studioso acuto e socialmente aperto quale fu Mario Labò, in un volume dedicato a quest'opera (I Palazzi di Genova di P. P. Rubens e altri scritti d'architettura, Tolozzi Ed. Genova, uscito postumo, a cura della moglie) riproponesse quelle stesse immagini e certe argomentazioni come preziosi riferimenti per impostare una attualissima e coraggiosa opera di rieducazione civica. Come dicono le fotografie «attuali» di innumeri palazzi genovesi presentate dalla mostra, si tratta di scegliere le condizioni di vita futura delle nostre città; di scegliere cioè tra l'alienazione e la più consapevole difesa di una serena ed operosa esistenza che Rubens stesso mostrò sempre di amare sopra ogni cosa. Angelo Dragone Ladislao di Polonia