La gran corsa al trapianto dopo i "test" di Barnard di Franco Giliberto

La gran corsa al trapianto dopo i "test" di Barnard Le statistiche danno ragione a chi vuole prudenza? La gran corsa al trapianto dopo i "test" di Barnard Un cuore artificiale fa vivere uri uomo, per la prima volta nel mondo, a Zurigo. Notizia clamorosa o destinata a qualche verifica? Notizia inattesa e perciò capace di suscitare un'emotiva ondata d'interesse popolare, oppure annuncio che tutti si aspettavano, ammaestrati da servizi televisivi e giornalistici che da anni prevedevano l'avvento de] muscolo cardiaco di metallo e plastica? Aveva torto Barnard a dichiarare, poco tempo fa, che saremmo dovuti giungere al 2000 per un cuore artificiale capace di dare garanzie di sopravvivenza dopo il trapianto? Certo che gli anni trascorrono veloci e i progressi tecnico-scientifici — al di là degli spericolati interventi sperimentali — a volte smentiscono persino la prudenza di chi ne e fautore. Coincide all'incirca con l'inizio della seconda guerra mondiale il fervore di ricercatori di tutto il mondo per la costruzione di una «macchina» capace di sostituire temporaneamente le funzioni del cuore e dei polmoni: da allora non è trascorsa un'eternità. Ancora negli Anni Cinquanta il problema da risolvere non era quello del trapianto cardiaco, ma della messa a punto di un'apparecchiatura che consentisse ai chirurghi di intervenire sul cuore palato, rabberciarlo, correggerne malformazioni e difetti. Era il settembre 1951, a Parigi, quando la Società internazionale di chirurgia dedicava una sua seduta alla «Circolazione extracorporea in vista della chirurgia endocardiaca». La cronaca di quel congresso non appariva sui giornali; nessun clamore ancora si alzava intomo alle prospettive di operazioni «a cuore esangue», con l'ausilio d'uno strumento che avrebbe sostituito cuore e polmoni dell'ammalato, finché il chirurgo avesse concluso la sua opera riparatrice in camera operatoria. Eppure l'olandese Jongbloed, a Parigi, aveva descritto un proprio apparecchio cuore-polmone e i risultati ottenuti con prove sul cane, presentando più film a colori. 11 francese D'Allaines aveva riferito «sulle prove praticate nell'animale con l'ausilio di un mezzo cuore artificiale, utilizzando per il prpseguimento dell'orecchietta destra speciali sonde». Lo statunitense Gibbon aveva dimostrato che la sopravvivenza di animali era stata nei suoi esperimenti di 74 minuti in circolazione extracorporea dopo aver aperto le cavità del cuore per qualche minuto. Avevo aggiunto: «La mia macchina cardiopolmonare è ora da considerarsi pronta per l'uso nell'uomo». Lo svedese Senning, della scuola di Crafoord, continuando gli studi di Bjork cominciati nel 1948, aveva raccontato di «esperimenti in circolazione totale extracorporea che avevano permesso la sopravvivenza di qualche animale per 59 minuti durante la circolazione artificiale». Dogliotti aveva riferito di un paziente operato per un tumore del mediastino, in circolazione «assistita grazie a un ossigenatore e una pompa capace di una portata di un litro e mezzo di sangue al minuto». Al congresso di Parigi del 1951 aveva fatto soprattutto scalpore — ma solo fra gli specialisti — il fatto che una macchina cuore-polmone fosse stata utilizzata a Toronto persino per «praticare un delicato interventi su un bambino di 9 anni affetto da morbo blu». A qualcuno sembravano balbettii di ricercatori, ma erano i segnali della nascita d'una nuova tecnica che nel volgere di quindici anni avrebbe spalancato alla cardiochirurgia vastissimi orizzonti. Tuttavia per scuotere il grande pubblico sotto tutte le latitudini c'era un giorno prestabilito, dal caso o dalla storia: il 3 dicembre 1967. Chi ricorda ancora, oggi, il nome di Louis Washkansky? Di quel malato si occupò un chirurgo allora quasi sconosciuto, all'ospedale Grootc Schuur di Città del Capo, Christian Barnard, 43 anni. Era allievo impaziente di uno fra i maggiori cardiochirurghi sperimentali d'America, Schumway. Era tornato in Africa deciso a non seguire i consigli del maestro che sosteneva: «Ci è andata bene con il cane, con la scimmia, con il coniglio. Ma danni retta Christian, per provare un trapianto di cuore sull'uomo sarà necessario aspettare ancora almeno vetil'anni». Barnard invece convinse Washkansky che la sua cardiopatia era senza speranze. O meglio, che si poteva tentare un'unica strada, il trapianto. 11 poveretto, di professione droghiere, gli si affidò. E quando all'ospedale di Barnard (dov'era stato ricoverato in attesa di un «provvidenziale donatore») giunse in fin di vita Denise Darwall, 24 anni, destinata a morire per un disastroso incidente automobilistico, l'intervento chirurgico fu coni- j piuto: in tre ore, con dodici specialisti capeggiati da Barbard. Il 4 dicembre la notizia corre per il mondo. Ma diciassette giorni Jopo Washkansky muore di polmonite, accidente conclusivo d'un altro male che da qual giorno lutti conosccianno col nome di «rigetto». Polemiche, critiche, applausi, attese. Barnard non delude i suoi fans, compie un nuovo trapianto il 2 gennaio 1968, pochi giorni dopo la morte del droghiere. E il mondo ancora si commuove o s'indigna per la sua temerarietà, nel sapere da radio, giornali, televisione che nel petto del bianco dentista Philip Blaiberg batte il cuore — allafaccia del razzismo sudafricano — di un donatore mulatto, passato a miglior vita Difficile tener dietro, da qual momento, ai trapianti di cuore nel mondo. Blaiberg vivrà per venti mesi, il tempo di rilasciare interviste, sorridere ai fotografi, scrivere un libro. Ma nel frattempo si scatenano, oltre a Barnard, decine e decine di altri chirurghi un po' dappertutto: in quell'anno compiono trapianti di cuore anche i colleghi critici di Barnard: da Shmway a Cooley, da De Bakcy a Kantrowitz. Che importa se I'80 per cento dei pazienti e più muore entro pochi mesi? Vediamo le macabre statistiche. 1968: negli Stati Uniti 65 trapianti di cuore (quattro soli sopravvissuti, cinque anni dopo) ; nel Canada 24 trapianti (un sopravvissuto); in Francia 19 trapianti (tre sopravvissuti) : in altri Paesi circa 60 trapianti (e nessuna notizia eerta sulle sopravvivenze, perché dall'India, dall'Argentina, dal Medio Oriente, dal Messico non si e voluto collaborare alle statistiche). 1969: nel mondo 67 trapianti e 13 sopravvissuti quattro anni dopo. 1970: in totale 42 trapianti e 14 sopravvissuti tre anni dopo. 1971: 27 trapianti e 11 sopravvissuti due anni dopo. 1972: 26 trapianti e 7 sopravvissuti un anno dopo. Il 1973, anno di riferimento della statistica per la sopravvivenza, nel mondo si compiono 14 trapianti di cuore. Nel 1974 uno soltanto, eseguito ancora dall'irriducibile Barnard, che questa volta inaugura la strada del « doppio cuore », lasciando cioè il muscolo malato nel petto del paziente e affiancandogliene un secondo, quello del donatore. Quest'anno, a giugno, l'italiana Marilena Mattiuzzo, 26 anni, si presta all'ultimo intervento del medico di Città del Capo: j Barnard le sostituisce il cuore con quello di un babbuino. La | donna muore dopo tre ore. Dal 3 dicembre 1967 sono stati compiuti 550 trapianti, i cardiopatici ancora in vita «con il cuore nuovo» sarebbero un'ottantina. Shumway non aveva tutti i torti a consigliare pazienza a Barnard, anche se egli stesso (con Coolcy, De Bakey e tutti altri illustri chirurghi) ha pers un po' di tempo prima di abbandonare i trapianti, che contraddittoriamente aveva cominciato a praticare sulla scia dell'allievo. Ora siamo alla notizia di Zurigo, quella del cuore artificiale di metallo e plastica. Nessuno si augura la ripetizione d'una tragicommedia. Negli Stati Uniti, dove ogni anno il governo spende 50 miliardi di lire per la messa a punto di un « surrogato del cuore » (cifra da sommare ai contributi di industrie che sperano di ottenere brevetti esclusivi), nessuno ha avuto ancora il coraggio di provare l'apparecchio sull'uomo: i vitelli e gli altri animali che hanno fatto da cavie sono morti troppo in fretta. « Potremo parlarne nel 1985 — dice Lowell T. Harmison, uno dei supervisori del programma americano per il cuore artificiale — perché abbiamo sì apparecchi altamente perfezionali, ma non abbiamo sciolto tutti i nodi scientifici che bisogna risolvere prima di passare alle applicazioni sull'uomo ». Franco Giliberto