Uno Stato che non sa dar fiducia ai cittadini
Uno Stato che non sa dar fiducia ai cittadini Otto anni dopo la strage di Milano Uno Stato che non sa dar fiducia ai cittadini « Un Paese che non riesce a pocessare gli attentatori di piazza Fontana »: con queste parole, permeate di turbamento e di amarezza, Carlo Casalegno iniziava il periodo finale di quella che, per un atroce disegno del destino e per un crudele atto di violenza umana, sarebbe stata l'ultima pagina della sua militanza giornalistica e insieme l'ultima puntata della sua rubrica settimanale « Il nostro Stato ». Nessuna definizione potrebbe essere più puntuale di quelle parole nel sintetizzare le incapacità, i limiti, le debolezze e peggio che caratterizzano ormai da tempo la gestione del nostro Paese. Ce ne accorgiamo soprattutto oggi, entrati come siamo nel nono anno dalla strage di Milano senza avere attinto neppure un barlume di autentica, cioè certa, verità. Chi fa coincidere l'inizio dell'effettivo deteriorarsi della nostra situazione politica e sociale, economica e giuridica con i morti che insanguinarono la sede milanese della Banca Nazionale dell'Agricoltura, ha perfettamente ragione. Uno Stato che, in otto anni, non riesce neppure a sfiorare le soglie di una prima sentenza di condanna per una tragedia di simile portata, è uno Stato che clamorosamente dimostra, giorno dopo giorno, la sua impotenza non solo a prevenire gli episodi di più efferata criminalità, ma anche a smascherarne la genesi, gli sviluppi e le responsabilità. Come stupirsi se quegli episodi aumentano, se le tensioni crescono, se i sospetti si moltiplicano, incrinando il tessuto sociale e destabilizzando l'assetto democratico? Rileggiamo per un attimo le prime pagine dei quotidiani del 13 dicembre 1969. Accanto alle notizie e alle fotografie del massacro c'era, concorde e assillante, un invito, un impegno, anzi una pretesa: far luce, al più presto e il più pienamente possibile, per ridare un minimo di fiducia sul piano dell'ordine pubblico c per assicurare alle famiglie delle vittime, e alla loro memoria, l'unico conforto ancora consentito, quello del non morire invano, attraverso l'individuazione dei colpevoli, lo scompaginamento del nucleo eversivo e l'erogazione di pene esemplari. L'omaggio ai morti di piazza Fontana non è slato reso finora che a parole. Tante, troppe, specialmente a livello ufficiale. E quando alle parole non seguono i fatti, quelle finiscono con l'assumere il sapore di una beffa. Non che le indagini giudiziarie siano state poche. Numerosi giudici vi si sono dedicati, da Milano a Padova, da Roma a Catanzaro (divenuta, purtroppo per la sua lontananza, la sede del giudizio principale, reso perciò ancor più difficoltoso), ma chi li ha aiutati, o li sta aiutando? Il panorama testimoniale, come le ultime udienze del processo di Catanzaro hanno evidenziato senza bisogno di speciali commenti, non potrebbe essere più desolante. Tra uomini politici che si rifugiano in una serie interminabile di « non ricordo », generali che sbandierano ad ogni momento il segreto politico-militare, facendo carico ai politici di averne deciso l'uso nei momenti più critici della fase istruttoria, e confidenti del Sid che tutto possono lasciar supporre ma non certo di essere credibili, il lavoro dei giudici è stato e continua ad essere ostacolato, quando non addirittura sabotato o depistato. Apprendere che il Sid. già nel dicembre '69 sarebbe siato a conoscenza di una possibile attribuzione della responsabilità della strage di Milano a un'organizzazione nera facente capo a due ben individuati mandanti francesi, ma che tale notizia sarebbe stata volutamente celata al magistrato competente, cosi da lasciarlo annaspare su un'altra pista di colore opposto, è forse il particolare più sconcertante fra quelli finora trapelati dalla nebbia delle reticenze, delle dimenticanze e delle contraddizioni. La gravità di tale silenzio iniziale, anche a prescindere dall'attuale stato in cui si trova il processo, è tanta che il palleggiamento della relativa responsabilità non sembra destinato a esaurirsi in breve tempo. Chi allora comandava il Sid l'ha scaricata sulla polizia e sui carabinieri, che dal Sid avrebbero ricevuto quella scottante informazione. Ma le perplessità restano intatte. Le conseguenze sono negative in ogni senso. Ricadono, anzitutto, sul dibattimento di Catanzaro che non soltanto non riceve gli apporti di chiarezza dei quali avrebbe bisogno per superare definitivamente il rischio di nuove sospensioni, ma che per giunta si vede costretto a mettere temporaneamente in un canto gli imputati, concentrando per ora l'attenzione sul capitolo — magari non essenziale (favoreggiamento non equivale a concorso nella strage) — delle informative e delle non informative durante il periodo istruttorio. Ma, al di là e al di sotto di tutto questo vi è qualcosa che incide più nel profondo. Come può sentirsi tutelato un Paese nella globalità della sua difficile vita quotidiana, quando, attorno a un fatto di enorme importanza storica, emergono tanti vuoti di memoria, tanti silenzi e tante deviazioni a svariati livelli di responsabilità ufficiale? Un passo avanti, comunque, va registrato. Una volta evidenziati (meglio sarebbe poter dire smascherati), sia pure a prezzo di un trauma doloroso, i malesseri che hanno inquinato all'inizio degli Anni Settanta la nostra conduzione statale, diventa possibile individuare rotte più proficue. Già qualcosa si è cominciato a ricostruire sulle rovine: abolito il Sid. il governo non potrà mai più coprire sotto l'egida del segreto « i fatti eversivi dell'ordine costituzionale » e i direttori dei nuovi servizi di sicurezza dovranno fornire tutte le informazioni relative a fatti configurabili come reato, di cui verranno in possesso, ai competenti organi di polizia giudiziaria. Toccherà a questi mettere subito al corrente la magistratura. Giovanni Conso
Persone citate: Carlo Casalegno, Giovanni Conso
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