Il riposo di Giobbe di Lorenzo Mondo

Il riposo di Giobbe UN ROMANZO DI JOSEPH ROTH Il riposo di Giobbe Il maestro Mendel Singer, che ] insegna la Bibbia ai bambini in un villaggio della Volinia russa, è un « comunissimo » ebreo; « semplice » è la sua professione, « insignificante » la sua esistenza, « di un nero simile a quello degli altri » la sua barba, « usuale » il caffettano che si trascina dietro, con le falde svolazzanti. Inoltre « migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo ». Perché questa semplicità appare cosi privilegiata? Perché Joseph Roth fa di Mendel Singer il protagonista del suo romanzo Giobbe? Nell'opera dello scrittore austriaco che le edizioni Adelphi stanno via via pubblicando, Giobbe (pag. 195, lire 4000) occupa una posizione centralissima. E' la celebrazione più spiegata e in fondo ottimistica degli Ostjuden, le comunità di ebrei orientali in cui Roth ravvisa il più conseguente ed emblematico rifiuto della storia. Ossessionato dai nazionalismi che traboccano dalla prima guerra mondiale, deluso dall'attesa della rivoluzione egualitaria e dalle sue degenerazioni, lo scrittore, per metà ebreo, non sente affinità per i figli della diaspora d'Occidente, comunque fiduciosi nell'avvento di un messia che rigeneri e faccia progredire il corso degli avvenimenti umani. Lo affascina a questo punto la sacralità arcaica degli ebrei di tradizione chassidica, il ripudio di una storia lineare — che sembra inabissarsi in un pozzo di spavento ed ira — a favore di una storia circolare: di quello che Mircea Eliade indaga come mito dell'eterno ritorno. E' rassicurante pensare che tutto è già accaduto, che la vita è specchio di lontani archetipi, che ogni turbamento trova una sua oscura compensazione. Di qui gli Ostjuden avrebbero tratto il loro modo di vita solidale e armoniosa, l'insuperabile candore e l'immedicabile allegria. Il microcosmo degli ebrei orientali come midollo prezioso di un organismo altrettanto mitico: l'impero asburgico, ultima, concreta realizzazione di un ordine europeo, di uno Stato sovrannazionale severo ma non tirannico, consunto ma redimibile, che le revolverate di Sarajevo avrebbero dissolto. Il Joseph Roth che si fa cantore di una utopia a rovescio, l'Austria felice, trasponendo nell'impero tramontato e nei microcosmi della sua periferia una serie di valori difficilmente accertabili dal punto di vista storico, ma sicuramente assenti dal mondo contemporaneo. Lo scrittore sapeva quanto fosse abusiva la sua nostalgia, nebbiosa la sua disperazione, ed a questo dissidio deve la torturante intensità dei suoi romanzi migliori. Con Giobbe ci troviamo in una sfera diversa e, almeno apparentemente, più angusta. Tutto si consuma nell'ambito della comunità ebraica, in una evasivita che riesce ad attutire i colpi della storia trasformandoli in episodi della lotta che Mendel Singer conduce con il Dio di Abramo. « Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi, equanimità al suo cuore e povertà alle sue mani ». Ma con la nascita dell'ultimo figlio, il minorato Menuchim, la sventura entra nella sua casa. Poi Jonas, il più grande, parte soldato dello zar; mentre Schemarjah, per evitare il servizio militare, attraversa clandestinamente il confine, fugge in America, Jonas prende tanta passione per i cavalli, per la vita libera e lontana, che si intruppa e si perde con i cosacchi. Quando il diavolo della lussuria entrerà nella piccola Mirjam, allora anche Mendel Singer lascerà il paese: la casa dal pavimento di legno giallo che sente il fumo delle candele e la cantilena dei salmi; i campi di grano sotto il cielo uguale; la neve e il fango degli inverni fascianti; il cigolio e la polvere dei carri; la sospettosa vicinanza dei contadini, dei cristiani. Tutte quelle cose che, dimenticati gli avi giunti dalla Spagna, si configurano come epifanie di una piccola patria. Mendel va in America, dove Schemarjah ha fatto fortuna, ma Dio continua a spiare i suoi passi. E così il figlio, dopo tanto allontanarsi, si ritrova soldato e muore con un'altra uniforme. E Mirjam sostituisce la lussuria con la pazzia, e Deborah, la moglie che finora sembrava smorzare nel suo grande corpo le visite del dolore, viene uccisa da un colpo apoplettico. Singer è solo, la fuga è stata inutile e forse colpevole, i conti deve regolarli personalmente con Dio come il biblico Giobbe, cercando di capire il senso dei suoi interventi crucciosi e crudeli. Cercherà di bruciarlo, quel Dio, dando fuoco ai filatteri, ai libri sacri, al bel mantello di pecora, battendo il tempo con gli stivali, in una specie di preghiera rovesciata e blasfema. Ma nei suoi giorni stremati e letargici non cessa di aspettare, perché « soltanto chi non ha avuto disgrazie non può credere ai miracoli ». Alla fine giungerà Menuchim, il figlio della sventura, che ricondurrà il vecchio padre in Europa, dove è cresciuto forte e saggio ed è diventato un musicista famoso. Mendel, leggiamo al termine del libro, « si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli ». Giobbe è del 1930, Roth muore nel 1939 quando il nazismo non ha ancora avviato la soluzione finale del problema ebraico. Ma il mondo cosi vagheggiato era già scomparso, frammentato e distrutto dalla storia nonostante i suoi patetici, inermi rifiuti. E certo il romanzo, inquadrato nella produzione di Roth, può assumere un carattere « reazionario », magari consolatorio, proprio perché gli manca la coscienza della fine. E' anche vero che le pagine americane, con New York che riproduce nel quartiere ebreo il co¬ stume e le ristrettezze del villaggio di Volinia, appaiono meno persuasive, disinvolte per esigenze di simmetria strutturale, più false perché vagamente cronistiche rispetto alla compatta epica delle origini. Ma basta leggere il primo capitolo per essere catturati da uno stile che riesce a congiungere miracolosamente stacchi epigrammatici e cadenze di melopea, attenzione realistica e stupore di parabola. Una parabola, appunto, che si può '«ggere, senza tenere conto delle ramificazioni ideologiche e del libro totale di Roth, ad esaltazione di una speranza « troppo umana », tanto essa è irriducibile, protratta ai limiti della follia. Prima che dalla fiducia in un Dio imperscrutabile, sembrano nascere, la speranza e la pazienza, da un profondo radicamento nella grande corrente del vivere. Anche davanti a questo Roth, forse minore, giù il cappello. Lorenzo Mondo

Luoghi citati: America, Austria, Europa, New York, Sarajevo, Spagna