Adolfo Tino, antifascista deluso

Adolfo Tino, antifascista deluso Adolfo Tino, antifascista deluso E' morto a Milano - Redasse "Chi siamo" del partito d'azione. Lasciò la lotta politica per non accettare compromessi Milano, 5 dicembre. E' morto sabato a Milano il presidente di Mediobanca, avv. Adolfo Tino. Aveva 77 anni. Avellinese di nascita era entrato giovanissimo nel giornalismo e aveva lavorato per alcuni anni al Giornale d'Italia. Lasciato questo quotidiano per ragioni di dissenso politico, Tino fu costretto durante il periodo fascista a lasciare il Paese e a rifugiarsi in Svizzera. Rientrato in Patria fu tra i fondatori del partito d'azione. Dopo la guerra esercitò l'avvocatura a Milano. Da oltre 15 anni era presidente di Mediobanca, l'importante istituto di credito finanziario. I funerali si sono svolti oggi. Tino aveva disposto nel testamento che la notizia stampa della sua morte fosse diramata solo a tumulazione avvenuta. (Ansa) Avevo visto per l'ultima volta Adolfo Tino, pochissimi mesi fa, alla fine di settembre. Ricoverato in clinica da varie settimane, già piegato dal male che doveva condurlo alla morte, ma lucidissimo nelle analisi, impietoso nei giudizi, pungente, e quasi sempre infallibile, nei ricordi. Questo democratico di origine e di cultura liberale porta con sé nella tomba la dote sua più singolare e irripetibile: la conversazione scintillante, la rappresentazione straordinaria di fatti e di uomini che. con orgoglioso distacco, affidava soltanto alla parola e si rifiutava di tradurre in volumi di memorie. Un patrimonio prezioso che resta affidato soltanto alla fedeltà e alla devozione degli amici che gli sopravvivono. L'esperienza politica di Adolfo Tino coincide con l'ultimo sessantennio della storia italiana, ne simboleggia alcuni dei momenti più alti, talune delle tensioni più nobili. Giornalista di istinto e di vocazione, non meno del fratello Sinibaldo (nome oggi sconosciuto ai più, ma compendio di virtù esemplari nel giornalismo politico di una volta), Tino lega la sua prima e per tanti aspetti decisiva esperienza al Giornale d'Italia di Bergamini, dove entra diciottenne nei 1918 e da dove uscirà solo per combattere, con assoluta autonomia e senza le compromissioni cui quel foglio di antica radice liberale dovrà piegarsi, la sua battaglia antifascista, nel solco di un liberalismo ncsvvAlcdffdsnGacdeclntatsvllvcstd non rinunciatario e non abdicatario, con l'organo antifascista La rinascita, diretto da quel vecchio galantuomo ancora vivo che corrisponde al nome di Armando Zanetti, l'autore del libro sullo Stato come « nemico », il denunciatore dei rischi del « panteismo di Stato ». Il liberalismo di T!no si confonde, a un certo pun'o, i-on i fermenti e gli uir.oii del gruppo di intelligenze e di cuori che si era stretto intorno all'« Unione democratica nazionale » di Giovanni Amendola. Sono gli anni dell'incontro ideale di Tino con chi, nella Milano post 1930, diverrà il suo amico più stretto e inseparabile, Ugo La Malfa. E' il mondo di casa Mattioli, che attende ancora il suo stolico. E' la nascita di un antifascismo in casa, nutrito di buone letture, aperto ai colloqui intellettuali con l'Europa, volto allo studio dei problemi strutturali della società italiana, teso a conciliare Croce con Salvemini, l'ispirazione del liberalismo quiritario coi fremiti della cultura pragmatica e a prevalente taglio economico-sociale che giunge dal mondo anglosassone, proprio mentre negli Stati Uniti si consuma l'esperienza del New Deal. Tino, antifascista coerente e inflessibile, ha abbandonato il giornalismo e si è dedicato alla professione legale. La Malfa, dopo le prime persecuzioni subite, ha trovato riparo nell'ufficio studi della Banca Commerciale. Casa Mattioli diventa ii punto d'incontro dei vecchi e dei nuovi liberali, dei liberaldemocratici, anche dei democratici che non vogliono più chiamarsi liberali. Sono gli anni in cui germina il partito di azione, sulla scia dell'esperienza rosselliana di « Giustizia e libertà » ma rivissuto dagli antifascisti domestici con un'aderenza più forte alla lezione crociana, con un rapporto più stretto col mondo di Croce. Non a caso saranno Tino e La Malfa a stendere, nella casa milanese del primo, alla fine del 1942, il famoso articolo «Chi siamo» che definirà il volto del partito d'azione, nell'apporto delle tre componenti fondamentali destinate ad alimentare quella singolare e inimitabile esperienza, il nucleo rosselliano, i liberal-socialisti di Calogero, i reduci lamalfiani dalla unione amendoliana (il gruppo che non a caso si batterà sempre, fino alla scissione, per evi¬ tare la riduzione del partito, di accento e di animo risorgimentale, ad una variante della dottrina socialista, ad una «piccola eresia socialista»). L'Italia libera clandestina vedrà entrambi protagonisti; il primo e fondamentale impegno del partito d'azione si legherà ai due nomi, associati da una assoluta comunanza di idee. E sarà di La Malfa e di Tino, dopo la liberazione, l'idea di portare Benedetto Croce alla presidenza della Repubblica, di svincolare il maestro del liberalismo dal residuo monarchico predominante nel suo partito. Quale sia stato il peso di Adolfo Tino nella battaglia antifascista fra '42 e '45 lo illuminano a sufficienza le pagine commosse di un altro esponen¬ te politico che nel mondo dell'« Unione democratica » era nato, le pagine di Giorgio Amendola, particolarmente nelle Lettere da Milano. Le delusioni del dopoguerra allontanarono Tino dalla lotta politica. Egli avrebbe potino essere uno dei capi della «terza forza» laica e democratica. La ripugnanza ai compromessi dell'azione lo riportò alla professione di avvocato, lo restituì al clima di casa Mattioli e di casa Bacchelli, dove toccò a ehi scrive vederlo ancora al centro, protagonista spesso appartato ma sempre decisivo, negli anni fra il '60 e il '70. Lo conobbi nel Corriere di Missiroli, agli inizi degli Anni Cinquanta, qualcosa come un quarto di secolo fa. Per il gior- ..... nalismo politico portava unanostalgia invincibile. Talvoltami sono domandato se la ripu gnanza alla parola scritta derivasse dal suo grande amore deluso per il giornalismo politico. Una cosa è certa: quest'uomo apparentemente ironico e beffardo, spietato nei giudizi su uomini e cose, ancora più pes-simista di La Malfa nelle pre-visioni sulla vita italiana, si commuoveva solo quando ilpensiero riandava al fratello Si-nibaldo e alle stanze di redazione del Giornale d'Italia. Solo chi è stato giornalista può capire questa nostalgia segreta, e quasi sempre inconfessata, dell'amico indimenticabile che ci ha lasciato. Era quasi la nostalgia di un mondo perduto. Giovanni Spadolini