Bravi studenti, ma senza avvenire di Clemente Granata

Bravi studenti, ma senza avvenire MOLTI PROGETTI (E DUBBI) NELLA SCUOLA FRANCESE Bravi studenti, ma senza avvenire La riforma universitaria del '76 ha aspetti positivi, ma non prospettive di lavoro - Le polemiche sulla "professionalizzazione" (Dal nostro inviato speciale) Parigi, dicembre. Si guarda la scuola francese così articolata nella «secondaria», così ricca dì (divelli» nel settore universitario e si pensa: ecco una scuola dinamica e flessibile nelle sue ramificazioni, ecco una scuola che non costituisce un'area di parcheggio per giovani in attesa di improbabili occupazioni: chi ha le capacità prosegue gli studi, chi non le ha si ferma e trova subito accanto a sé la « sigla » adatta, che vuol dire specializzazione e lavoro. La realtà è un po' diversa. Intanto c'è il problema della selezione. E' giusta o no? E' garantita l'uguaglianza dei punti di partenza? Il «pedagogista» Haby risponde sì, sostiene che con la sua «riforme» elementari e media unica non rappresentano più una gara ad ostacoli. L'eventuale «ritardo» dell'allievo, conseguenza di un disadattamento psicologico, non costituisce più un marchio clw oli condiziona il cammino scolastico e la vita intera, ora che sono state tolte le tre poco seducenti «filières», dove sin dal primo anno della media si collocavano i bravi, i meno bravi e quelli con rendimento scarso. Ma gli avversari di Haby sostengono che è troppo poco, che i ritardi sono conseguenza non di semplici disadattamenti psicologici, ma di difficili situazioni socio - ambientali (quelle semmai bisognerebbe rimuovere) e che comunque chissà tra quanto tempo la «réforme» farà sentire i suoi benefici effetti, ammesso che ne sia capace. Ma c'è altro. La «ramificazione», che sembra riflettere un sistema razionale di scelte e di valori, in pratica crea un sistema rigido poco adatto alle esigenze di una società in rapida trasformazione. La scuola non è sincronizzata con i bisogni. La pluralità delle scelte non è flessibilità, ma apparato elefantiaco, che non garantisce adeguati sbocchi professionali. Naturalmente c'è anche la crisi economica, che esercita una notevole influenza negativa. Senza un impiego L'elenco dei «jeunes chòmeurs», dei giovani senza impiego, si allunga anche in Francia. A l'«Agence de l'emploi» c'erano alla fine del mese scorso un milione e sessantatremila domande in attesa di essere soddisfatte. Certo è una cifra grezza, comprensiva anche di chi compie lavori saltuari o cer- ca un'occupazione più soddisfacente Ma quel dato offre pur sempre l'indicazione di una linea di tendenza e le domande d'impiego sono il 25 per cento più dello scorso anno. Certo la situazione è molto meno deteriorata della nostra, ma suonano i campanelli d'allarme e le preoccupazioni sono parecchie. E si sente parlare con insistenza di giovani incerti e inquieti per il loro avvenire, di scuola «demotivata». La questione riguarda anche e soprattutto l'università con i suoi 823 mila studenti. L'organizzazione degli studi universitari presenta una certa ricchezza con i diplomi di vario livello. Ma il «deug », il diploma del primo ciclo non garantisce molte prospettive e anche certe «licences» e «maitrises» rischiano di diventare un pezzo di carta. Vediamo innanzi tutto alcune cifre. Il numero più alto d'iscritti è a lettere con 255 mila giovani circa, poi vengono medicina (150 mila), diritto e scienze politiche (130 mila), scienze (comprensiva di alcuni indirizzi matematici) e biologia (128 mila), scienze economiche (58 mila), farmacia (30 mila). Con il «boom» (1964) dei collegi d'insegnamento secondario le cose andarono molto bene. La richiesta di insegnanti era altissima e in alcune città (Perpìgnan, Pau, Valenciennes), favori- \ ti anche dalle comunità locali, sorsero atenei con lo scopo principale di preparare docenti da utilizzare sul posto. Ma gradatamente il «boom» si è affievolito. Una università, che a lettere e a scienze prepari soprattutto all'insegnamento, può trasformarsi in area di parcheggio. Che fare? Sul finire del '75 JeanLouis Quermonne, direttore dell'insegnamento superiore e della ricerca, auspice Soìsson, allora segretario di Stato alle Università, propose: riformare il secondo ciclo e «professionalizzare» i corsi universitari. Il discorso di Quermonne non era nuovo. Riprendeva e ampliava le proposte (parzialmente attuate) di André Casadevall, rettore dell'Accademia di Créteìl («rettore rosso » simpatizzante del pcf). Casadevall nel 1971 aveva rivolto la sua attenzione alle facoltà scientifiche ed economiche per garantire agli studenti sbocchi professionali nuovi, in particolare nel settore industriale a tecnologia avanzata. Le sue «creature» furono le «maitrises» di scienze e tecniche (M.S. T.), le «maitrises» di scienza della gestione (M.S.G.); i corsi di amministrazione economica e sociale (A.E. S.), di matematica e scienze sociali (MA.S.S.). Si tratta di corsi specializzanti di due anni aperti agli studenti muniti del diploma del primo ciclo universitario e di un certificato preparatorio speciale. I corsi permettono di conseguire circa duecento diplomi di specializzazione. Qualche esempio: tecnologia agricola e industriale, scienza dei materiali, biologia applicata alle industrie agroalimentari, tecniche biomediche. Non solo, ma da qualche tempo, alcune M. S.T. dopo un anno di studio permettono di conseguire in cinque università il diploma d'ingegnere, fatto rivoluzionario per la Francia dove il settore è stato sempre sotto il controllo delle supercorporative «Grandes Ecoles». Alcune università parigine e della provincia hanno ottenuto l'abilitazione ad aprire i corsi patrocinati da Casadevall. Attualmente essi sono frequentati da circa diecimila studenti. Sul finire del 1975 dicevamo, Quermonne sulle orme di Casadevall ha studiato la riforma del secondo ciclo universitario e lanciato la parola d'ordine: professionalizzazione degli studenti. La riforma è formalmente entrata in vigore VII gennaio del '76 con un decreto della signora Alice Saunier-Séité, nuovo « ministro» delle Università. Al « Secrétariat d'Etat aux Universités», Jean Imbert, attuale direttore degli studi superiori, un distinto signore sulla sessantina, folti capelli bianchi, me ne illustra le caratteristiche. «Professionalizzare» significa compiere un'opera di «riconversione» di alcuni corsi di laurea letterari e scientifici per adattarli alla evoluzione della società che «produce» l'esigenza di nuove professioni. La caratteristica di questi corsi (durata quattro anni) è la «polivalenza», che consente una certa flessibilità. La procedura è questa: le università fanno delle proposte al segretariato di Stato, proposte elaborate da professionisti del settore interessato e da rappresentanti delle comunità locali. Le proposte sono esaminate da due commissioni tecniche formate da nove membri: cinque in rappresentanza dell'università, uno delle professioni, uno degli studenti, uno del ministero competente e uno dei sindacati. Se le commissioni approvano il corso, il segretariato di Stato concede l'autorizzazione. Non c'è dubbio. Sulla carta la riforma di Quermonne rappresenta un serio tentativo dì collegare mondo della produzione e mondo della scuola. Ma in pratica ha scatenato la bufera. E ora le acque sono calme solo in superficie. Da un lato accuse di voler «assoggettare» gli studi universitari agli «interessi del grande capitale», dall'altro levata di scudi degli ambienti umanistici, che hanno gridato all'attentato alle tradizioni culturali della Francia. E anche gli studenti in aprile dello scorso anno sono riapparsi nelle strade di Parigi. Come in Italia Preso tra questi fuochi il «Secrétariat d'Etat» ha avuto un comportamento oscillante. Formalmente non ha revocato il decreto, ne ha però ridotto la portata con circolari interne. A Nanterre !" prof. Larivaille mi dice, ancora più drastico: «E' cambiata la scatola, ma il contenuto è rimasto uguale». In ottobre del '76 i dubbi del governo hanno provocato le dimissioni contemporanee di Casadevall e Quermonne. Motivo: la politica universitaria della signora Alice, o meglio l'assenza di una tale politica. Le critiche di Casadevall sono state duplici: da un lato la mancanza di una politica di piano avversata dal «ncoliberismo» di Giscard, politica che consentirebbe un più efficiente coordinamento tra scuola e lavoro, dall'altro il mancato stanziamento di fondi. E questo è il punto cen¬ trale delle controversie. In Francia (come in Italia) le spese per l'istruzione non superano il 20 per cento del bilancio. Ora, una politica incisiva di riforme richiederebbe sforzi maggiori, che l'amministrazione non intende (o non può) compiere. E' evidente quindi che il potenziamento di un settore (i corsi di Quermonne) richiede sacrifici a un altro (i corsi tradizionali). Ma ciò provoca reazioni a catena. Così si rischia l'immobilismo. Ridotte le spese Ciò nonostante al «Secrétariat d'Etat» appaiono se~°.ni. «Le polemiche?», si domanda Monsieur Imbert e risponde con un gesto fastidioso: «Artificiose, artificiose». Poi con un sorriso: «Da che mondo è mondo ì conservatori sono i partigiani delle riforme e i progressisti dello "status quo"». Mostra documenti e statistiche. La riforma del secondo ciclo almeno sulla carta va avanti. Le commissioni tecniche stanno esaminando 700 proposte delle università. I corsi dovrebbero incominciare l'anno prossimo. Domando: «Previsioni sull'afflusso dei giovani?», Imbert: «Forse 40 mila». Domando ancora: «Gli sbocchi occupazionali sono garantiti?». Imbert allargando le braccia: «Cosa vuole, anche le "Grandes Ecoles" adesso provano qualche difficoltà». Però dice di nutrire molta fiducia. Alla sede dello Sne-sup (sindacato insegnanti superiori) si respira ben altra atmosfera. C'è aria di mobilitazione. Il segretario Alain Roux parla di «svolte pericolose»: la riforma del secondo ciclo e quella Haby non vanno bene perché sa¬ crificano l'insegnamento umanistico a quello tecnico. Peggio ancora le recenti sortite di Haby, secondo cui nelle medie uniche sono più che sufficienti professori d'insegnamento generale (provvisti soltanto di diploma universitario di primo grado). Tuona Roux: «Dice questo proprio nel momento in cui sì avvertono maggiormente le esigenze di un insegnamento più qualificato. Riducono le spese della istruzione, umiliano l'insegnamento umanistico, vogliono "tecnicizzare" il Paese. E li ha visti i testi scolastici come sono ridotti? Schematici, sintetici. E' la fine dello spirito critico francese. Noi ci muoveremo ». Riforma Fouchet, riforme Faure, Fontanet, Quermonne-Soisson, Haby. Sono le tappe dell'istruzione francese in questi ultimi anni. La assenza di riforme può essere sintomo d'immobilismo, la loro proliferazione di profonde incertezze. E Le Monde de l'éducation, pregevolissima rivista, che esce da tre anni, si pone otto interrogativi e apre un dibattito. C'è tutto: età dell'obbligo e funzione della secondaria; che cosa insegnare e come; formazione degli insegnanti; educazione permanente; università; politica di piano; stanziamenti. Sono interrogativi che attengono ai « principi primi » dell'educazione. Un settore dove tutto è rimesso in discussione. E le riforme, ogni riforma, rischiano di trasformarsi in una fatica di Sisifo. Scuola in crisi? E' evidente. Ma l'impressione è che sia una crisi di adattamento, di sviluppo, non di rigetto come altrove. Pur tra contrasti, drammi, sussulti. Clemente Granata

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