Ritorno iti risaia

Ritorno iti risaia Ritorno iti risaia di FRANCESCO ROSSO IV GLI anni della guerra lasciarono segni profondi nel mio paese, i caduti (non si diceva mai i morti) erano stati numerosi, e quando tutto si concluse in quel novembre 1918 poche famiglie salutarono con gioia il giorno dell'armistizio. Poi incominciarono i ritorni dei reduci dal fronte, ed anche degli « imboscati ». Tra i tanti tornò Jean, un giovane che aveva lavorato a lungo in Francia ed aveva cambiato Giovanni nella versione francese. Un po' dopo cua moglie gli diede un figlio, ed egli lo chiamò Reduce. Quel ragazzo, oggi uomo, credo viva ancora a Torino. Dico ciò non per rilevare un fatto curioso, ma per indicare la mutata mentalità della gente; la guerra aveva profondamente inciso sul costume, come avrebbe inciso, da li a poco, sulle condizioni sociali e politiche. Prima i bambini ricevevano sempre il nome dei nonni; ora se ne inventavano di nuovi, di solito presi dagli uomini politici per cui si parteggiava. 1 nomi designavano anche le opposte fazioni, ch'erano poi due; socialisti e liberali. Solo più tardi si formò il partito « dei preti », quello di don Slurzo, il cui naso quasi sforava dalle pagine dei satirico Asino, molto venduto al mio paese. Negli anni dell'immediato dopoguerra incominciavo a rendermi conto di certe differenze sociali che prima non avevo notato. « Non devi andare con quei bambini », mi diceva la inanima. Ai miei « perché » rispondeva che avrei capito più tardi. Invece, ho capito subito; ai miei genitori i socialisti non piacevano più, ma ne ignoravo il motivo. A me, invece, i bambini dei socialisti andavano molto a genio, perché con loro si potevano fare cose vietate a quelli definiti « figli di particolari ». I « particolari » erano i proprietari di un cerio numero di giornate di terre, o anche solo fittavoli. Ciò che non riuscivo a comprendere era perché alcuni fossero « particolari » ed altri no, dal momento che tutti in paese possedevano almeno un po' di terra; in risaia la proprietà era mollo frazionata, alcuni avevano molta lena, altri poca, o pochissima; questi ultimi la coltivavano nelle ore libere dal lavoro a giornata, e bastava comunque a dare un certa consistenza al patrimonio familiare. Nonostante ciò, le passioni politiche si arroventavano sempre più. 11 lavoro in risaia era diventato meno disumano, le « otlo ore » erano state conquistate, ma le paghe erano sempre basse. Ricordo gli scioperi, lunghi e sempre sul punto di degenerare, per il salario di « venti soldi », una lira al giorno. Ero ormai sui dicci anni, ed in grado di comprendere molte cose. Intanto era arrivata la luce elettrica, un grosso avvenimento, che divise ancor più gli animi schierando in fazioni nemiche coloro che poterono installarla subito e gli altri che non avevano la somma necessaria per sostituire i fumosi lumi a petrolio. Per me fu giorno di mestizia quello in cui gli operai in calzoni azzurri entrarono in casa, spaccarono muri ed intonaci per piazzare i fili ed appendere al centro delle camere i paralumi con le lampadine che si accendevano girando una piccola manopola di porcellana. Se ne andavano i bei lumi a saliscendi con il vasto coperchio di opalina; accenderli la sera era davvero un rito, e l'odore del petrolio aveva avuto significati che quella inerte lampadina accesa a distanza non poteva avere. La luce elettrica mutò molte abitudini. La gente si riuniva meno nelle stalle, c'era l'aspirazione a vivere meglio, a vestirsi meglio. Le ragazze andavano dalle sarte e dalle ricamatrici a preparare il corredo di sposa, o gli abiti per le feste ed i balli. Si ballava molto nel dopoguerra, quasi con frenesia, nei nostri paesi. Nel mio c'erano due circoli, la « Lega Socialista » e il « Circolo Ideale ». E' abbastanza chiaro quali fossero gli orientamenti politici dei frequentatori che pure per patria comune avevano la risaia. Forse non sono molli coloro che conoscono davvero « la risaia », un mondo che è sempre rimasto estraneo a quanto accadeva oltre il Mincio, che è poi il confine con la Lombardia. I lavori di preparazione incominciavano sul finire di febbraio; a San Giuseppe l'aratura, ai primi di aprile l'inondazione e la semina. Tutto si trasformava in un lago sterminato rotto dalle sottili strisce nere degli argini e dai filari di pioppi lungo i fossi. I paesi parevano assediati da quelle inondazioni che riflettevano a testa in giù le case e gli alberi. 11 riso incominciava a spun lare ai primi di maggio, una lanugine verde sul pelo lucente dell'acqua. Le rane gracidavano furenti in quei giorni d'amore; sarebbero diventate torme viscide nel volgere di poche settimane. A giugno incominciava la monda e la grande avventura della risaia. La manodopera locale non bastava, e arrivavano le mondine, centinaia e centinaia di donne che si spostavano per quaranta giorni dai loro paesi lombardi, emiliani, tortonesi, alessandrini per vivere un breve, ma sgradevole esilio. Ceni « padroni » le sislcmavano in vasti granai con piccole brandirle; nitri, con meno scrupoli, gli davano un mucchietlo di paglia per letto. Pulci e zanzare erano la delizia notturna di quelle donne che si ritiravano a dormire il più tardi possibile. Si intrattenevano la sera sulle aie dove un giovanotto del luogo suonava una chitarra, o una fisarmonica. Si inlessevano danze, o si cantavano le canzo¬ ni che avevano reso meno monotono il lavoro diurno in risaia. Erano canzoni d'amore, ma più sovente canzoni di rovente protesta. Ai cori portati in risaia dai combattenti si alternavano i canti rivoluzionari. Ricordo una frase per tutte: « Vogliamo la pelle dei gran signor, per fare le scarpe dei lavorator ». L'astio raggiungeva vertici che sfioravano l'odio, ma sempre e solo a parole. Il giornale La Risaiu aveva una manchette accanto al titolo piuttosto significativa; nella risaia, schiene curve c teste affondate fin quasi nell'acqua, c'era una fila di mondine; sull'argine, protetto dal parasole grigio, c'era il «padrone», pingue e irridente. Non saprei dire se fosse perché ho nella mente un « padrone » del mio paese, ch'era prete, o se perché nella manchette del giornale socialista ci fosse sotto il parasole proprio un prete, ma da allora non sono più riuscito a disgiungere quell'immagine protestataria da un chiaro anticlericalismo. I miei com¬ paesani non sono mai stati troppo bigotti, avevano una certa venerazione per la Madonna Nera, ma la chiesa la frequentavano pochino. Però, quando si sposavano, dopo il rito in municipio andavano in chiesa a farsi benedire dal prete, e quando morivano tutti volevano il funerale religioso. Ch'io ricordi ci fu un solo funerale civile, con la banda municipale che seguiva il feretro suonando una lenta, tristissima marcia. Ma non ci furono mai scontri violenti, né per la pelle umana con cui fare scarpe, né per l'anticlericalismo. Un anno o due dopo la fine della guerra esplose la « spagnola ». e furono mesi di angoscia. Il piccolo cimitero rischiò di « fare il pieno ». Ricordo un caso terribile, quattro morti contemporaneamente nella stessa famiglia del Bernardin, il padre, due figlie, un maschio composti in quattro bare affiancate; la madre ed un'altra figlia, le sole scampate, erano a letto in pericolo di morte. Questi avvenimenti tragici ridavano armoniosa fratellanza al paese, ma passato il pericolo si erigevano nuovamente le barricate. Nelle elezioni del dopoguerra, per la prima volta nella storia del paese fu eletto un sindaco socialista (il congresso di Livorno era ancora ignoralo). Si chia- raava Angelo Buroeco, era un brav'uomo, un semplice contadino di buon senso incapace di uno sgarbo anche ai suoi avversari. Sotto la sua amministrazione i socialisti si rafforzarono; costruirono anche una vasta e pretenziosa « Camera del lavoro » dove ballavano la domenica. Al mio paese, come tutti quelli di risaia, nella buona stagione la gente viveva all'aperto; i giovani passeggiavano lungo la via principale e gli anziani sedevano dinanzi alle porte spalancate dei piani terreni. Questa esistenza corale si incrinò dopo la guerra, le passeggiale giovanili erano segnale politicamente, ed i gruppi avversi, incrociandosi, non si salutavano; le donne sedule sulle soglie non si rivolgevano la parola. Erano anni strani, in cui si incominciava a parlare di occupazione delle terre. Oltre a La Risaia circolavano altri periodici che illustravano la rivoluzione russa, i discorsi di Lenin, il congresso di Livorno dove era stato fondato il Partito Comunista. In risaia il socialismo subì un calo forte, prese piede il comunismo. E si videro i primi fascisti e le « Guardie Regie » che arrivavano sempre quando tutlo era finito. Al mio paese non erano molto numerosi, forse dieci in tutto, ma prepotenti e maneschi. Non agivano direttamente in paese; forse per una tanica ben stabilita i fascisti si scambiavano i ruoli; tu vieni a picchiare a Pertengo, io vado ad Asigliano. Un pomeriggio d'autunno mentre giocavo in un pialo, ho 1 assistito all'azione che già allo| ra mi parve nefanda. Sei fascisti in bicicletta, mantellina nera sulle spalle, fez nero di sbieco ed il fiocco sulla schiena, pedalavano in bicicletta verso il paese. Incrociarono il sindaco Buroeco che andava in campagna, badile sulle spalle, anch'egli in bicicletta. Lo buttarono a terra e lo pestarono con violenza belluina, gli fracassarono la bici¬ cletta, ch'era il suo patrimonio. Quando lo lasciarono tramortito. Angelo Buroeco rimase per qualche istante inerte, forse temendo che quelli tornassero; si alzò, si spolverò, guardò il suo velocipede ammaccato, si rimise il badile in spalla e, arrancando con la bicicletta sbilenca, andò ugualmente a lavorare nel suo podere. Due notti dopo i fascisti tornarono in paese ed incendiarono la » Camera del Lavoro ». Ormai qualcosa era finito in quel paese che racchiudeva il mio mondo, la cortese discordia si era trasformata in odio, il lavoro in campagna non aveva più attrattiva. Incominciava l'esodo verso le fabbriche, verso Torino. La guerra aveva abbattuto gli antichi confini invalicabili, ma la risaia apparteneva sempre al « vecchio Piemonte », la piccola patria non ancora cancellata dall'unità d'Italia nella mente dei piemontesi per i quali la capitale continuava ad essere Torino. Eravamo circa duemila prima della guerra; ora sono rimasti in settecento. Cambiava anche il modo di vivere. Il mezzo di traino più comune era il cavallo. Ricordo certe manine, che ancora non albeggiava, il rumore dei carri cigolare lungo le strade indurite dal gelo; due, tre cavalli per ogni carro che andava a caricare riso nelle cascine e nei paesi vicini. Ora i ca| valli incominciavano a diminuire di numero, subentravano i camion residuati di guerra, fracassoni, sferraglianti nelle nubi di polvere l'estate, schizzando melma l'inverno. E cambiavo anch'io, crescevo, e alzandomi in statura vedevo raccorciarsi le disianze. Avevo concluso il ciclo delle elementari, bisognava decidere sul mio avvenire. Decisero mio padre e mia mamma; con un po' di sacrificio economico si poteva tentare l'avventura degli sludi a Vercelli. E qui incomincia un altro capitolo, ma la risaia con tinuerà ad essere il fondale della mia adolescenza. (continua) Le mondine al lavoro per il trapianto del riso

Persone citate: Lenin