Jtfiortto in risaia

Jtfiortto in risaia Jtfiortto in risaia T ORNARE a casa »; una frase sempre più sbiadita, che ogni giorno perde significato. Ritorno, sempre più di rado, in quel paese che fu « casa mia » per rivedere il poco rimasto della mia famiglia, mia sorella, mio fratello, anch'essi ormai relegati in un mondo di ricordi, e incontrare i molti morti chiusi nel piccolo cimitero oggi più folto di « cappelle », le tombe di famiglia in cemento, delle case che formano il paese. Ma questo non è il paese, la risaia della mia memoria, è una realtà diversa, non saprei dire se migliore o peggiore sotto il profilo dell'esistenza; case con bagno e con termosifoni, televisori e telefoni, strade asfaltate, livida illuminazione al neon, persino un semaforo all'unico crocevia per regolare il traffico delle molte automobili paesane e di transito. Sono più felici oggi con tutto questo comfort, comprese le trattrici agricole, le mietitrebbia, i diserbanti, gli essiccatoi, oppure eravamo più felici allora, quando la fatica umana aveva ancora un senso e rendeva fratelli coloro che la sopportavano? Non saprei dire, so però che « tornare a casa » mi diventa sempre più difficile, persino angosciante. All'entrata del paese, inevitabilmente, mi viene incontro il basso campanile, l'abside, il pronao del santuario settecentesco della « Madonna Nera », una popolaresca copia in legno del simulacro più famoso venerato ad Oropa. E' un po' l'emblema del paese perché ogni anno, sul finire d'agosto, si celebra ancora la festa in onore di quella statua dal volto color di pece che Eusebio, vescovo di Vercelli, avrebbe portato dai suoi viaggi in Oriente. Anche il piccolo santuario, affogato nella sterminata piattezza della risaia, oggi è mutato; la bella porta massiccia barocca è stata cambiata con una più lucente e più nuova, i mobili della sacrestia, anch'essi barocchi, ed i molti ex voto, hanno preso la strada degli antiquari. Nella nicchia è rimasta la statua della « Madonna Ne¬ ra » col roseo, palfuto bambinello in braccio. Già allora pensavo alla stranezza di una Madre nera che genera un Figlio bianco; non sapevo ancora nulla di razzismo, di paesi multirazziali, ma il fatto mi intrigava perché lì, nel mio paese, non avevo mai veduto nessuna persona, né maschio né femmina, dalla pelle nera; c'era soltanto quella Madonna che reggeva sulle braccia il Figlio bianco, almeno, così mi pareva. Domandai alla maestra, una monaca, una spiegazione plausibile; la risposta fu un celione che, per la vergogna di averlo ricevuto dinanzi a tutta la classe, mi fece avvampare d'ira. « Guarda meglio », disse. Andai a guardare; il Bambino era nero. Ma perché prima lo avevo sempre veduto bianco? Ricerco nella memoria quella maestra manesca e la rivedo nettissima, come una fotografia appena scattata; soggolo bianchissimo sempre inamidato; un cuore d'argento con nastrino rosso sulla pettorina candida, anch'essa inamidata, il velo nero che le avvolgeva il capo, il lungo vestito nero su cui spiccavano i grani lucenti di un rosario spesso sgranato, il volto angoloso, duro, di contadina inacidita, e gli occhi freddi dietro gli occhiali cerchiati di ferro. Ricordo persino il nome, Laura Capovilla, superiora della piccola comunità di suore di quel paesotto, maestra nella prima classe elementare. Quanti anni sono passati? Una voragine non soltanto per la loro somma, che pure è cospicua, ma per quanto è accaduto nel fratiempo; diciamo mezzo secolo, ma è stata valicata un'era geologica, tanto rapidi e sconvolgenti si sono accumulati gli avvenimenti. Parlo del mio piccolo paese perché lo conosco meglio, essendovi nato ed avendo vissuto lì per tutta l'infanzia e quasi l'intera adolescenza, ma è come se nel discorso coinvolgessi tutti gli altri paesi circostanti. Qualche nome? Rive, Stroppiana, Asigliano, Costantana, Desana, Prarolo, Caresana, cioè tutto quello sterminato settore del¬ la risaia che da Crcscentino e Trino, seguendo in parte il corso del Po fino alla confluenza della Sesia, gravita su Vercelli. Oltre il Po, o subito al di qua, i paesi subivano l'attrazione di Casale ch'era già Monferrato. Vercelli, a quei tempi, era la nostra Tuie, dove il mondo finiva. C'era Novara, capoluogo di provincia, ma per noi era già estero. Vercelli, era nostra, anche se ci pareva lontanissima e sfumata in una nebbia di visioni appena trattenute. Dodici chilometri da Pertengo, facili, grazie ad una ferrovia e ad un treno che allora ci sembrava mostruoso, ed era un giocattolo che sbuffando vapore sferragliava quattro volte al giorno fra Vercelli, Casale ed Alessandria. Il nostro mondo di bambini era circoscritto a brevi distanze segnate dal suntuario della Madonna Nera ed alcuni canali in cui, venuta l'estate, andavamo a nuotare. Ma se il mondo era per noi così circoscritto, per gli adulti aveva confini molto più dilatati. Intanto, c'era il servizio militare; a diciott'anni i giovani andavano a « tirare il numero »; se erano fortunati ed estraevano un numero basso rimanevano a casa; oltre il venti via, soldato. Mio padre era stato mandato all'Aquila, in cavalleria. Quando ne aveva voglia raccontava dell'Aquila e di Pescara, nomi che mi sono rimasti nella memoria ma che, a quel tempo, non mi dicevano nulla, anche perché mio padre, uomo taciturno, non amava parlare di sé, delle sue avventure, benché io e mio fratello, aggrappati alle sue ginocchia, lo implorassimo con piagnucolosa insistenza di raccontarci le sue favole soldatesche. Poi, c'erano i giornali. Pagavano l'abbonamento a Stefano, il portalettere, che ne faceva arrivare un certo numero di copie; le distribuiva la mattina con la posta. Arrivavano da Torino La Stampa e la Gazzetta del Popolo in numero di copie quasi uguale, ed erano le finestre spalancate sul mondo esterno, la cronaca delle grandi cit¬ tà, i grandi processi e la politica nazionale. Mio padre era giolittiuno. ma prima era stalo socialista. Non ricordo perché avesse mutalo opinione, erano problemi troppo grossi per me. So tuttavia che la « politica » appassionava i miei compaesani, e le discussioni erano sempre molto accese, specie la domenica nelle molte osterie che si contendevano i clienti e si differenziavano in classificazioni sociali; alcune erano rosse, socialiste; altre erano bianche, liberali. Erano più numerose le prime, perché i socialisti erano i più animosi, anche se i meno numerosi. Almeno, così risultavano alle elezioni comunali, ch'erano poi quelle che ci interessavano più da vicino. Riusciva sempre eletto sindaco, quasi per diritto ereditario, l'avvocato Leopoldo Tarchetti, grande proprietario di risaie, uomo all'abile, di bell'aspetto, i balli sempre bene arricciali ed | un perpetuo sigaro virginia fra i le labbra. Estraeva lentamente | il filo di paglia, lo accendeva jal fiammifero, eppoi lo accosla- va al sigaro da cui estraeva go- :lesamente le prime beccate di fumo. IQuando c'era un matrimonio !cingeva la sciarpa tricolore, prò- nunciava la formula sacrameli- tale, ascoltava il duplice sì ed alla fine chiudeva col « Vi dichiaro marito e moglie ». Poi, con gesto semplice porgeva il regalo alla sposa, quasi sempre un braccialetto d'oro. Forse era per la sua cordiale semplicità ed il regalo alle spose, oltre alla sua oculata amministrazione, che egli era sempre rieletto sindaco. Oggi giurerei chi votavano per lui aneli; mol-ti socialisti. La vita in risaia, allora, non era allegra. Non c'era miseria, nessuno ha mai sofferto la fa- me, però c'era una diffusa po- verta dignitosa. Il lavoro nei campi aveva solo brevi tregue invernali, poi diveniva un tre-mondo susseguirsi di ore ed ore in risaia, dall'alba al tramonto, sdgmrbcdlvmddpaltzzscd Un borgo vercellese con la roggia, che un tempo serviva per le lavandaie e per il mulino

Persone citate: Caresana, Desana, Laura Capovilla, Leopoldo Tarchetti, Stroppiana