Così, il dissenso a Venezia di Stefano Reggiani

Così, il dissenso a Venezia TRA VECCHIE IDEE E NUOVA FILOSOFIA Così, il dissenso a Venezia (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 19 novembre. Sul piccolo palcoscenico del Teatro Al Ridotto, stretti intorno al tavolo come i dilettanti di una filodrammatica, alcuni esuli politici dell'Europa orientale aspettano le domande di un pubblico un. po' commosso e un po' distratto. I problemi scorrono dalle complessità abissali («Ci spieghi in chiave marxista come la crisi possa rafforzare il socialismo in Urss»; alle curiosità concrete ("«Perché la Russia deve importare grano?»). Andrej Amalrik («Sopravviverà l"Urss fino al 1984?» ) è stanco, parla in piedi davanti al microfono, ma cerca un appoggio sul bordo del tavolo, si ripete, divaga. Pliusc è il più vigile, aggressivo dentro la stia malinconia: è un matematico, le questioni politiche gli sembrano quantità da spartire con esattezza, senza resti. Presiede Ilios Yannakakis, greco-cecoslovacco, abita a Parigi, un'ombra terribile di tristezza dentro gli occhi: «Chi vuol fare domande, per piacere?». Poi uno, forse il cecoslovacco Sling, dice la battuta rasserenante che suscita l'applauso: «Se anche le monarchie sono diventate democratiche, perché non accadrà lo stesso al socialismo dell'Est?». Manca solo che il filosofo Leszek Kolakowski esca dalle quinte con la sua aria cinica da grande attore, i capelli bianchi, il passo claudi'.ante e porga uno dei suoi paradossi da polacco anglicizzato: «Dopo aver conosciuto il marxismo mi dedico agli studi di teologia». Ma Kolakowski non c'è; in qualche modo incolume (insegna a Oxford con passaporto polacco) non appartiene al gruppo più disperato dei senza patria. Natalia Gorbanevskaja, piccola e rattrappita, ha gli occhi cerchiati di rosso. Le chiedono: «Come si sta a Parigi?»; non capisce, scuote la testa. Chiuso il dibattito Fuori del teatro l'aria corre fredda per le calli. S'è chiuso il convegno sul dissenso, nel pomeriggio. Sotto l'Ala napoleonica di piazza San Marco, dove hanno discusso gli storici, resterà accesa solo la lampada dell'ufficio di polizia. La straordinaria solitudine veneziana sembra ancorarci fuori del mondo, mentre la violenza è appena dietro i canali. C'è una poesia del dissidente Aleksandr Galic, apparentemente ironica: «S'aggirano i fascisti per le strade di Venezia e fanno la corte alle signore». Chissà, fantasmi di violenza; e le signore corteggiate sono le idee. Il nuovo filosofo André Giùcksmann racconta una vecchia barzelletta. Le truppe sovietiche e cinesi si affrontano sul fiume Ussuri; dall'una e dall'altra parte si invoca il nome di Marx. Si illumina il cielo, appare Marx, barbuto e irritato, guarda ai due lati dell'Ussuri e grida: «Proletari di tutto il mondo disunitevi». Dunque, s'è chiuso il dibattito storico, il più diretto e politico; dopo verranno quelli sulla religione, sulla letteratura, sul cinema, sulla scienza. Fermarsi a quest'aria inquieta di commedia sarebbe il modo più facile per semplificare e tradire la Biennale del dissenso. Anche se la commedia mette in vista i nostri difetti: i luoghi comuni che resistono, la divisione delle idee oltre che delle speranze. Come chi dicesse: sappiamo tutto sul dissenso, l'abbiamo celebrato, ma il gioco delle parti non cambia. Dopo la prima controversa tappa della Biennale, ci resta un ideale triangolo: sopra stanno in mostra i dissidenti, a sinistra cresce curiosamente la filosofìa, a destra vigila la politica. La filosofia sembrava una parola abbandonata, adesso il suo senso più largo e gonfio (avere una filosofìa) sgombra le strade politiche e afferra in un nuovo gioco. Si veste magari con la giacca a vento e i jeans, ha i capelli tagliati alla paggio e le lentiggini come Glucksmann. Bisogna essere onesti e riconoscere che la cosiddetta « nuova filosofia » francese, anche non letta, anche orecchiata, ha introdotto il dissenso nella nuova sinistra, ha agganciato gli sbandati, ha eccitato i conservatori. André Glucksmann è a Venezia come scontato eversore; non ama far parte di una scuola, teme che Bernard Levy con la sua irruenza e la sua litigiosità abbia fatto terra bruciata per lui in Italia. No, avrà ancora pubblicità e ascolto. Qual è, per Venezia, la novità di questo filosofo? L'aver sostenuto che tutti, a destra e a sinistra, a Est e a Ovest, intellettuali e politici usano vecchi schemi e vecchi pregiudizi, schiavi delle stesse necessità: giustificare il potere. Sotto la gara delle ideologie si nasconde solo il gioco del comando, sta la concezione più dura dello Slato, quella repressiva. In particolare il marxismo, che dovrebbe essere una pratica di liberazione, è l'esempio più chiaro, secondo Glucksmann, che ogni ideologia cela una tecnica di potere. Il marxismo por¬ ta al campo di concentramento politico, al Gulag. O meglio: non il marxismo, ma quella ideologia che ne ha preso il nome. Dice Glucksmann: « Io non so che è il marxismo. Qualcuno lo sa? Ce ne sono tanti, magari in conflitto tra loro». In questo panorama di aggressione totalitaria in nome delle ideologie Glucksmann, che ha fatto il maggio francese e che è stato prima su posizioni marxiste abbastanza ortodosse, ha incontrato i diritti civili, il dissenso nei Paesi dell'Est e se ne è impadronito nel modo più proprio di un filosofo, teorizzandoli; i nemici dicono « commerciandoli, rendendoli oggetti di consumo ». Reazioni a Roma Ha detto agli storici riuniti analisi sintetiche come aforismi. Per esempio: « Il dissenso non ha bisogno di opporre allo Stato forte la forza di un altro Stato programmato o sognato, al partito un altro partito e al monopolio dei mezzi di produzione e di comunicazione •non ha bisogno di opporre altri monopoli ». E ancora: « Lo spirito della guerra fredda come pure quello della coesistenza richiede ai popoli di scegliere fra Stati più o meno antagonistici, la lotta per i diritti dell'uomo giudica gli Stati in funzione della libertà dei popoli ». La carica anarchica di questa filosofia è bene un segno dei tempi, la sua spinta individualista è una risposta generosa ai dissidenti. Ma essa contiene anche una vocazione catastrofica che sembra condannare la storia alla ripetizione delle sue violenze. Che risponderà la politica? E' il capitolo più interessante di Venezia, appena aperto, quello che ha suscitato più imbarazzo e pole¬ miche. L'effetto più vistoso della Biennale potrebbe stare nei risultati che non otterrà subito, o che non otterrà mai. Boffa per il pei, Ellenstein per il partito comunista francese, hanno respìnto ogni crociata antisovietica, accettando la difesa dei diritti democratici. I comunisti spagnoli sono stati più espliciti: « E' l'eurocomunismo il luoqo in cui il dissenso troverà il socialismo non autoritario ». Il presidente Ripa di Meana, portando il suo appello alla Conferenza di Belgrado senza essere « garantito » politicamente ha compiuto un gesto dimostrativo, l'unico che gli era possibile nei tempi brevi. Dice: « Ho usato delle mie prerogative di presidente ». Ma annuncia che a Roma qualcosa si muove. I socialisti, i repubblicani, i radicali presenteranno interrogazioni al governo per chiedere quale sarà la posizione italiana a Belgrado sui diritti civili dei dissidenti trattenuti all'Est. Meana ha capito che la Biennale ha questa forza di provocazione e di disagio, e che il resto (eurocomunismo, governo, rapporti con l'Est) appartiene a un dialogo che si inizierà magari quando la Biennale del dissenso sarà finita. E il dissenso? Esce da Venezia, dopo il dibattito storico, con una grande pubblicità, soprattutto (si pensi anche al convegno del Manifesto) con una legittimazione storica dentro la sinistra. E' passato il momento degli slogan, è incominciato quello della riflessione. Noi non crediamo alle soluzioni facili; vediamo l'ombra della situazione internazionale. Quella ottenuta dal dissenso a Venezia è una legittimità problematica; e tuttavia c'è, ormai è un fatto col quale bisognerà fare i conti. Stefano Reggiani