Vita controversa d'un signore veneziano di Alvise Zorzi

Vita controversa d'un signore veneziano RICORDANDO GIUSEPPE VOLPI DI MISURATA A CENT'ANNI DALLA NASCITA Vita controversa d'un signore veneziano Venezia, novembre. Fra le tante singolarità della vita di Giuseppe Volpi di Misurata c'è anche quella di essere nato e morto quasi lo stesso giorno, a settant'anni esatti di distanza: 17 novembre 1877, 16 novembre 1947. A cent'anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa, il nome di « Sua Eccellenza il Conte », come pomposamente )o chiamavano i suoi numerosissimi dipendenti, collaboratori e adulatori, è ancora oggetto di discussioni e polemiche nel microcosmo veneziano al quale, nonostante l'ampiezza dei suoi interessi, Volpi appartenne sempre e sempre si gloriò di appartenere. L'accusa più consueta che gli viene rivolta è quella di aver dato inizio, con la creazione di Porto Marghera, alla catastrofe ecologica e demografica che, a sessant'anni di distanza, minaccia di far morire di mala morte Venezia e la Laguna. Nell'animo di Volpi, la decisione di creare un porto industriale al margine della terraferma aveva preso le mosse proprio dalla previsione opposta. Dopo quello che era successo a Venezia nell'Ottocento, quando all'espansione dell'Arsenale erano state sacrificate almeno tre chiese antichissime (Santa Maria delle Vergini, la Celestia e San Daniele), quando ad inesistenti problemi di viabilità si era ispirata la politica idiota e criminosa degli <c sventramenti », quando si era consapevolmente proposto di costruire linee tranviarie lungo il Canal Grande, strade sopraelevate sul bacino di San Marco, cinture ferroviarie tutt'attorno alla città, l'idea dello sviluppo industriale di Venezia poteva coincidere con Dio sa quali ferite mortali, irreparabili. Trasferire l'industria in terraferma, ma a brevissima distanza, isolarla ma non allontanarla troppo, significava, nella mente di Giuseppe Volpi, evitare lo scempio e dare uno sbocco al lavoro dei Veneziani. Se lui pensava di guadagnarci, possibilmente molto, questa era, nella logica del suo tempo e della sua professione, perfettamente legittimo. Nessuno, del resto, poteva prevedere l'enorme sviluppo dell'industria petrolchimica, origine dei massimi guai, né lo spopolamento e l'emigrazione in massa. Nemmeno un uomo come lui, che passava per un genio della finanza internazionale. Un ventenne geniale Se fosse proprio un genio, non siamo in grado di valutarlo. Ma che sapesse il fatto suo, non c'è dubbio. Figlio di un ingegnere veneziano che abitava in campo dei Frari, « Bepi » Volpi aveva appena superato la maturità classica ed era già direttore di una società di assicurazioni; a ventidue anni dava consulenze al governo unghereso i. materia di commercio estero. E negli anni in cui, con l'appoggio di alcuni notabili che avevano capito il suo talento, Piero Foscari, Nicolò j Papadopoli, il conte Revedin, aveva dato il via ad una serie di iniziative che andava dall'istituzione del monopolio dei tabacchi nel reame di Montenegro alla fondazione c'i una società per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei Balcani, dalla costruzione del porto di Antivari alla creazione della Società Adriatica di Elettricità, era un giovanotto tra i ventisei e i trentadue. L'anno di nascita cM futuro mastodonte idro¬ elettrico, la Sade, ne aveva, giusti giusti, ventotto. Tanta intraprendenza gli aveva fruttato, nel microcosmo veneziano, feroci maldicenze: dicevano che vendesse uova marce agli Albanesi, maiali guasti ai Serbi, e peggio assai. Gli aveva fruttato, però, anche l'attenzione di Giovanni Giolitti, che, ai ferri corti con i Turchi (era il tempo della guerra di Libia), aveva pensato, da quell'uomo concreto che era, che a negoziare con loro occorresse qualcuno che li conoscesse a fondo. E Bepi Volpi, a Costantinopoli prima, poi al tavolo della conferenza che doveva sboccare nel Trattato di Ouchy, si era mosso (ne era consapevole, se ne gloriava) da veneziano dei tempi della Serenissima, cioè da diplomatico consumato e da profondo conoscitore dei problemi e della mentalità del tormentatissimo mondo orientale. Col trattato negoziato da lui, l'Italia aveva guadagnato la Libia e il Dodecaneso. Era il 1912, Bepi Volpi aveva appena trentacinque anni e presiedeva una quarantina di società. L'anno dopo, in una faida col chiassoso tribuno locale Elia Musatti, aveva ricevuto una patente di galantuomo da un giuri d'onore del quale facevano parte due santoni del socialismo dell'età eroica, Filippo Turati e Camillo Pramp orini. Nel 1921, era stato ancora Giolitti a pensare a lui come governatore della Libia, con l'appoggio di Giovanni Amendola. Gliene era derivato, in aggiunta al titolo di conte, ottenuto già nel 1920, il predicato « di Misurata », che, fra caffè Florian e caffè Lavena, aveva provocato nuove ed atroci sfottiture, ma premiava un'azione coraggiosa come l'occupazione di Misurata Marina, centro di terroristi e di predoni, da lui personalmente condotta. Poi erano venuti gli anni del fascismo, che l'avevano visto ministro delle Finanze e presidente della Confindustria, e, a Venezia, nume e demiurgo locale; quando il « gruppo Volpi » annoverava associati come Vittorio Cini e Achille Gaggia, e su di lui stesso si accumulavano a pioggia i denari, gli onori e le piaggerie. Fino a che le vicissitudini nazionali dal 1943 in avanti l'avrebbero visto disfatto, dapprima prigioniero delle SS, poi incolpato di profitti di regime, insultato e perseguitato da fascisti e antifascisti, minato da un male incurabile, ridotto l'ombra di sé stesso, finire in sordina, dimenticato o quasi, contro il suo costume, contro la logica del suo personaggio in settant'anni di vita. Trionfalista e vanitoso Un'altra accusa, ancora oggi ben viva (lasciamo agli storici il giudizio sulla sua politica finanziaria e sui suoi atti di governo), è proprio questa: trionfalismo, vanità, insomma la « scena », il culto dell'esteriorità, che si rifletteva, se non altrove, nella sorprendente varietà dei suoi abiti. Noi stessi lo ricordiamo come un sontuoso Fregoli, in alta uniforme di gran cordone dell'Ordine Mauriziano, in tenuta di ministro di Stato, in abito da yachtman, pantaloni bianchi e giacca blu con i bottoni d'oro, in divisa da ambasciatore con feluca a piume di struzzo. Erano cose d'altri tempi. Ma, sotto quelle vesti variopinte, ricordiamo di Volpi, a parte la carica di travolgente simpatia mondana che tutti gli riconoscevano, un tratto che è soltanto da persona intelligente (l'aveva anche un altro personaggio che abbia¬ mo conosciuto, oh quanto diverso da lui. Luigi Pirandello): la pronta, perspicace comprensione e la profonda considerazione dell'interlocutore, quali ne fossero il calibro e l'importanza. Strumenti vecchi per un potere antico come il mondo, la guida degli uomini. Volpi li possedeva, come possedeva in grado eminente il fiuto che permette di scovare e di riconoscere gli uomini veramente validi. Così, nei lunghi anni in cui fu presidente della Biennale (presidente trionfalistico, certo: alle inaugurazioni era tutto uno scintillio di medaglie, di decorazioni, di ramages, di feluche, di piume di struzzo, di spadini) quella istituzione, sempre così discussa e contestata, conobbe anni di splendore: a lui, dopo tutto, si dovettero la nascita della Mostra internazionale d'arte cinematografica, del Festival intemazionale di musica contemporanea, del Festival internazionale del teatro. Dove, bisogna ammetterlo, figurò per anni il meglio della produzione cinematografica mondiale, dell'avanguardia musicale (da Malipiero a Stravinskij, da Dallapiccola a Hindemithi e della grande regìa teatrale. Nelle mostre d'arte figurativa, poi, fu forse l'autorità di Sua Eccellenza il Conte a permettere rassegne audacissime per allora, da Modigliani a Kokoschka, agli espressionisti tedeschi, ai pittori sovietici di prima che calasse il nebbione conformista dell'età staliniana. Non se ne occupava certamente di persona, né avrebbe consapevolmente coperto manifestazioni contestatorie, ma se, nelle varie rassegne della Biennale, non furono i santoni del regime fascista a tenere il mestolo, fu forse perché avevano paura di lui. E' morto da trent'anni, e riposa nella chiesa gotica di Santa Maria dei Frari, vicino alla pala d'altare dipinta da Tiziano per una famiglia di capitalisti di quattrocent'anni fa, i patrizi da Pesaro. Pur riconoscendone difetti ed errori (primo e gravissimo, l'appoggio fornito alla dittatura fascista) forse Venezia può ora riconoscere di dovergli qualcosa, a quel suo figliolo così simile a certi persa naggi del suo passato. Un doge, come è stato detto troppe volte? No certo; i dogi erano d'altra pasta, d'altra levatura, più grandiosa, più completa, più dura. Ma, se non altro a paragone di tante altre figure che ci sono passate dinnanzi in questo trentennio, un processo di revisione, forse, Giuseppe Volpi di Misurata se l'è meritato davvero. Alvise Zorzi