I misteri di Courbet

I misteri di Courbet IL BUONGIORNO E LA BUONANOTTE I misteri di Courbet L'exemple de Courbet di Aragon è del '52. Se ne può riassumete il senso (dell'esempio, dell'esemplarità che Aragon assegna a Courbet) in questo passo: «Gustave Courbet non so se è più o meno grande pittore di Delacroix o di David. E' una questione accademica. Ma non c'è differenza di natura tra i personaggi dipinti da Nicolas Poussin e quelli dipinti da Louis David. Non c'è tra Delacroix e tutti i pittori che l'hanno preceduto una rottura essenziale. Courbet rimette tutto in discussione. Per primo egli ha proclamato nella pittura e con la sua pittura il primato della materia, l'esistenza indipendente dell'oggetto rispetto all'artista, la necessità assoluta di prendere dalla natura, e solo dalla natura, ciò che l'occhio ha visto e niente di più di quel che ha visto... L'apparizione del fenomeno Courbet nella pittura coincide con lo svegliarsi del gigante operaio nel suo secolo; e quale che sia il debito di Courbet verso i pittori che l'hanno preceduto, la rottura, cioè l'atteggiamento materialista di Courbet, non viene da loro: viene da questo gigante che si sveglia e le cui idee, la cui filosofia non ancora formulata ma che comincia ad esserlo, trovano subito in questo pittore il loro primo riflesso fantastico e al tempo stesso segnano il confluire della storia nell'arte, e che l'arte dovrà ormai con esse fare i conti ». Questo discorso di Aragon, di venticinque anni fa, lo sentiamo oggi lontano come se fossero passati secoli. Lontano il Courbet di Aragon, lontano Aragon, lontani noi stessi da come venticinque anni fa avremmo letto questo libro, appreso questo esempio. E appunto ci allontana dal discorso di Aragon e a momenti ce lo rende insopportabile l'aver voluto fare di Courbet un esempio (e per chi, se non per noi allora giovani?). Per sua fortuna — e nostra — Courbet non è esempio di quel che intendeva e voleva Aragon (e non soltanto Aragon: che Aragon era, come si dice in Sicilia, l'ultima ruota del carro; di un grande, possente e schiacciante carro). E non che si possa prendere ad esempio del contrario: nel tempo della sua vita, nel suo fare, tra Luigi Filippo e Napoleone III, Courbet è stato un pittore realista, un pittore sociale, un pittore socialista e — diciamo pure la fatale parola — un pittore impegnato: giusto come ha voluto vederlo Aragon. Ma il fatto ch'egli abbia assistito al risveglio del gigante proletario e che la sua arte abbia tenuto conto delle idee che a quel risveglio si accompagnavano e dei fatti che quelle idee generavano, finisce col contare assai poco per chi oggi vede, raccolti nella mostra del Grand Palais, circa centocinquanta suoi quadri. Di fronte a un solo nudo, a un solo paesaggio, a una sola natura morta è possibile — paradossalmente — pensare al Courbet di cui Aragon fa esempio primo del realismo socialista. Ma a vederli tutti, uno dopo l'altro, l'esempio si vanifica: i quadri dicono semplicemente la storia di un grande pittore; una storia ricca di contraddizioni, di ambiguità e di mistero quanto quella di ogni altro grande artista, in ogni tempo. Del resto, quel suo breve scritto del 1855, che è considerato il manifesto del realismo, ha ben poco a che fare col realismo socialista alla cui codificazione appunto col saggio su Courbet contribuiva Aragon. « L'etichetta di realista » — dice Courbet — « mi è stata imposta così come agli uomini del 1830 è stata imposta quella di romantici. Le etichette, in ogni tempo, non sono servite a dare un'idea giusta delle cose... Ho studiato, senza spirito sistematico e senza partito preso, l'arte degli antichi e dei moderni. Non ho voluto ripetere gli uni né copiare gli altri; e non ho perseguito il fine dell'arte per l'arte. No! Ho voluto semplicemente mettere nell'intera conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della mia individualità. Conoscere per fare, questo è il mio pensiero. Assumere i costumi, le idee, i fatti del mio tempo secondo la mia valutazione ed essere non solamente un pittore, ma anche un uomo. In una parola: fare dell'arte vivente... ». Lo studio degli antichi, dunque; la conoscenza della tradizione. La rottura, ii rifiuto, il rimettere tutto in discussione non solo non erano nelle intenzioni di Courbet, ma nemmeno si intravedono nella sua opera. * * Si è tanto parlato di questa mostra di Courbet, e polemizzato, che se anche avessimo la competenza di darne un ragguaglio ci limiteremmo ad anprsola è Senecodiduseadautodeprst—te—t« mtebqmloCchadlausegsccuzpdgNdeclCcrvsdnstAtgcpa«sqmvftcficuegcun o annotare soltanto qualche impressione. E ad un primo, sommario giro della mostra, la più immediata, la più ovvia, è questa: tanti autoritratti. Sembrano persino troppi, se ne ha un senso di fastidio. Li contiamo: sono sedici; più del dieci per cento. Courbet indubbiamente si amava. Amava se stesso giovane e bello, se ad un certo punto smise di autoritrarsi. TI penultimo autoritratto, quello al centro del grande quadro che rappresenta il suo affollatissimo studio, è del 1855; l'ultimo — Portrait de l'artiste à Sainte-Pélagie, e cioè in prigione — è del 1873-74, circa ventanni dopo. In esso Courbet « se flatte physiquement ». Dimagrito, forse lo era realmente: ma quell'aria giovanile, la barba e i capelli neri, quella quasi ironica serenità certamente avevano « un rapport lointain avec la vérité ». E' il primo « mistero » di Courbet: Courbet che si ama, che non si ama più, che torna ad amarsi quando attraverso la sofferenza può dare di sé una immagine idealizzata. II secondo è quello delle Bei gneuses, un quadro che fece scandalo al Salon del 1853 e di cui è leggenda si sia scandalizzato anche Napoleone III al punto da pvventare un colpo di frustino sul dorso della bagnante: ma a parte il fatto che Napoleone III non era uomo da scandalizzarsi per un nudo, e se mai avrebbe fatto un commento piuttosto salace sull'abbondanza di questo di Courbet, è assolutamente incredibile sia andato ad inaugurare il Salon in tenuta da cavallerizzo. Lo scandalo veniva dalla straripante e sgradevole abbondanza di forme della figura nuda e dal fatto che in essa si volle vedere una rappresentazione della grossa borghesia. Anche Delacroix annotò che si trattava di una « grosse bourgeoise », e non si capisce perché; ma il suo scandalo era più sottile, toccava quello che a noi oggi appare come un « mistero »: il mistero del gesto delle due bagnanti. Per quel gesto, che è di allontanamento e, dall'espressione del volto di quella che vediamo di fronte, al tempo stesso di attrazione e di abbandono, Delacroix notava: «C'è tra ie due figure un dialogo di pensieri che non si riesce a capire ». Come pittore, e di fronte a un-pittore proclamato realista, era portato a giudicare sbagliato quel gesto: ma intuiva che tra le due figure correva un muto e segreto dialogo e, non riuscendo a decifrarlo, se n , e ne inquietava. Per conto nostro, crediamo che il segreto di questo quadro possa sciogliersi, passando per Les demoiselles des bords de la Seine, in quello delle due donne nude allacciate nel sonno, uno dei più noti di Courbet e variamente denominato: Il sonno, Le amiche, Le dormenti, Tedio e lussuria (e sarebbe stato più esatto Lussuria e tedio). Un mistero, per così dire, più oggettivo è nel grande quadro La vestizione della morta fino a qualche anno fa conosciuto come La vestizione della sposa. Misterioso il fatto che Courbet abbia voluto, con pochissime e improbabili modifiche, mutare il soggetto in altro opposto: e ci chiediamo se non l'abbia fatto per alludere all'equazione matrimonio-morte. E misterioso il fatto che nessuno — prima degli accertamenti radiografici e del riscontro sull'inventario dei quadri rimasti a Juliette Courbet — si sia accorto che si trattava della vestizione di una morta (evidentemente morta) e non di una sposa. Ma non sono solo questi i misteri di Courbet. Sono tanti, anzi: dall'autoritratto detto II disperato a quello, di pensosa e ironica serenità, del prigioniero di Santa Pelagia; dal Buongiorno, signor Courbet — che crediamo rappresenti, se ne rendesse o no conto il pittore, la fine della committenza e l'inizio di quella che possiamo chiamare la dittatura dell'artista sulla borghesia, che raggiungerà con Picasso il suo vertice — alla grande scena dell'Atelier, che è stata letta anche in chiave massonica ma forse va semplicemente (semplicità che implica ogni complicazione) letta come «il mondo che va a farsi dipingere da Courbet » (« c'est le monde qui vient se faire peindre chez moi »). * * Da dieci anni a questa parte abbiamo visto quasi tutte le grandi mostre che Parigi ha varato senza mai essere stati tentati di scriverne. Perché questa nota sulla mostra di Courbet? La risposta può essere questa: che aggirandoci nelle sale del Grand Palais, davanti ai quadri di Courbet, abbiamo sentito, in questo autunno del '77, di essere come sul punto di passare un confine e che il buongiorno, signor Courbet può tradursi — nettamente, ormai — in una buonanotte alle illusioni di Aragon, che sono state anche nostre. Leonardo Sciascia

Luoghi citati: Parigi, Sicilia