Una legge turba il riposo nella casa dei musicisti di Alfredo Venturi

Una legge turba il riposo nella casa dei musicisti Alla Regione la fondazione Verdi Una legge turba il riposo nella casa dei musicisti (Dal nostro inviato speciale) Milano, 2 novembre. Davanti c'è la statua di Giuseppe Verdi, con l'espressione bonaria cristallizzata nel bronzo, le mani riunite dietro la schiena a sollevare la giacca. A pochi passi uno degli ingressi della Piera. Siamo nell'elegante quartiere milanese che si estende tra il Parco Sempione e San Sire sù qui, in piazza Buonarroti, in uno di quei palazzi di linea gotico-veneziana che furono così cari all'architettura di fine-secolo, ha sede la Casa di Riposo per musicisti, meglio nota a Milano come «Casa Verdi». Ci sono una sessantina di ospiti, età media 73 anni, in prevalenza donne come vuole il «quadro demografico» di quella classe di età. Sono stati cantanti, strumentisti, coristi: vengono da ogni parte d'Italia e molti di loro conobbero vasta risonanza internazionale. Il loro tranquillo riposo in un ambiente che riproduce quello professionale (concerti, dibattiti, interminabili discussioni sul comune interesse per la musica, guida ai visitatori che da tutte le parti vengono alla tomba di Verdi, che è proprio qui nella «Casa»), è turbato adesso da una notizia. La notizia di una innovazione legislativa. La legge 382 sul decentramento delle competenze, prevede anche la regionalizzazione degli istituti pubblici di assistenza e beneficenza. Il decreto di attuazione della 382, pubblicato a fine luglio, indica esplicitamente la «Casa Verdi» fra gli enti che passeranno, con il loro patrimonio, il loro personale, le loro funzioni, alla gestione regionale. Perché questo provvedimento provoca tanto scalpore, e tante preoccupazioni? Lo spiega il presidente della Casa, Michelangelo Abbado. Ciò che si teme è che le caratteristiche dell'istituzione, quelle che Giuseppe Verdi delineò nel suo testamento dopo aver voluta la Casa di Riposo e la Fondazione che ne rappresenta il telaio giuridico, vengano profondamente snaturate. Si teme, in pratica, che l'assistenza fornita dalla Fondazione, riservata espressamente a chi ha lavorato da professionista in campo musicale, si tramuti in assistenza generica. E ancora, che si restringa ai limiti regionali (o magari comunali, perché .a Regione potrebbe a sua volta affidare l'Ente al municipio) la «portata» nazionale della Fondazione, che offre assistenza a tutti gli ex operatori musicali, purché siano cittadini italiani. Proprio in vista di questi due rischi, del pericolo più generale che vengano distrutti i «valori dì tradizione e di cultura» della Casa Verdi, come li definisce Abbado, gli amministratori della Fondazione hanno cercato a lungo di evitare la regionalizzazione. Il presidente, che è dimissionario in segno di protesta, legge i telegrammi che ha inviato ai presidenti Andreotti, Fanfani, Ingrao, il carteggio icprsdnbqacvrtlcevè intrattenuto con Guido Fanti, che presiede la Commissione parlamentare per le questioni regionali. Si avanzano dubbi sulla costituzionalità, si parla di «espropriazione» , si delinea un quadro giuridico abbastanza oscuro. In sostanza il problema è questo: c'è l'antica volontà di Giuseppe Verdi, di dar vita ad un'istituzione con precisi connotati, un luogo dove i vecchi musicisti possano vivere gli ultimi anni in «ambiente culturale omogeneo» ; e c'è la diffusa consapevolezza che, cosi com'è, la Casa ha assolto egregiamente le sue funzioni. Si parla di rispettare quella volontà e questa realtà: e non è proprio detto che il passaggio alla competenza regionale debba sacrificare l'una e l'altra. Abbado ripercorre brevemente la storia dell'istituzione. Fu lo stesso Verdi a scegliere il terreno, allora periferico, ad acquistarlo, a commissionare il progetto all'architetto Camillo Boito, a seguire passo passo la costruzione. Nel 1901, un mese dopo la morte, il fondatore vi fu traslato dal cimitero monumentale e accanto alla sua tomba c'è quella della moglie, Giuseppina Stripponi. Per cinquantasei anni, la Casa visse dei diritti d'autore di Verdi, della rendita del patrimo¬ nio originario, allargato con il reinvestimento di parte dei diritti, di lasciti e donazioni. Poi, quando le opere di Verdi sono diventate di dominio pubblico, c'è stato un contributo dello Stato, prima venti, poi settanta milioni all'anno; ben poca cosa rispetto al volume delle spese. Proprio mentre si sollecitava il governo ad aumentare il contributo (che a sua volta non è che una piccola parte di ciò che lo Stato incamera con l'anacronistica tassa sulle opere verdiane) sono arrivati la 382, il decreto di attuazione, l'inserimento della Casa Verdi in una «tabella B» che elenca decrepiti carrozzoni assistenziali. Ma questo è ben altro che un carrozzone, dicono gli amministratori, che sono di nomina pubblica: e per di più vive quasi esclusivamente di propri redditi patrimoniali. «Proprio l'anno del Bicentenario — sospira un ospite della Casa — l'anno in cui la Scala celebra se stessa, quindi anche Verdi, soprattutto Verdi» . Ma l'allarme non chiede che di essere smentito, non si vede proprio perché una legge, che fa lo Stato più moderno e democratico, dovrebbe compromettere la singolarità di questa istituzione, che è inr'.e.ne di assistenza e cultura. Alfredo Venturi

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