Per salvare i posti di lavoro sono necessari piani di rilancio: se no si bruciano miliardi

Per salvare i posti di lavoro sono necessari piani di rilancio: se no si bruciano miliardi La crisi dell'industria pubblica si allarga, l'occupazione sta franando Per salvare i posti di lavoro sono necessari piani di rilancio: se no si bruciano miliardi Mattina (Firn) : "Il Sud paga più di tutti" - Benadì (Unione Industriale) : " Smantellare vecchie incrostazioni e clientele" I seimila licenziamenti minacciati dalla Montefibre sono l'ultima falla aperta nel tessuto dell'occupazione, già lacerato in più punti. Le reazioni dei sindacati sono durissime. Domani si riunirà la segreteria della Federazione unitaria per decidere uno sciopero generale che, da più parti, si dà ormai per scontato (i tessili hanno già proclamato una fermata di otto ore per il 3 novembre; metalmec¬ canici e chimici premono). !Dopo l'incontro Andreotti-Me dici pare ora che il caso possa in qualche modo rientrare, almeno temporaneamente. Ma, nello stesso tempo, un'altra gravissima crisi s'affaccia; quella dell'Alfa Sud, dove è in atto un terremoto al vertice e almeno tremila dei tredicimila dipendenti rischiano di essere travolti da una montagna di miliardi di passivo. La frana dei posti di lavoro investe larga parte dell'indù stria pubblica. Gli ottomila dell'Unidal (Motta-Alemagna) attendono sempre provvedimenti d'emergenza che, comunque, comporteranno tagli dell'occupazione (con serie conseguenze per le fabbriche produttrici collaterali e la rete commerciale). Nella siderurgia spira aria di tempesta (ne sanno qualcosa i sessantamila dell'Italsider). La cantieristica (Italcantieri, Breda) si dibatte in difficoltà crescenti di mercato. Il comparto meccano-tessile (aziende ex-Egam e parte della Montedison) continua ad essere nell'occhio del ciclone. La crisi di questi settori è più acuta nelle aree meridionali. «Le industrie a Partecipazione statale», dice il segretario generale dei metalmeccanici, Enzo Mattina, «sono in pratica le uniche ad avere una presenza di rilievo in queste zone. Se cedono, non ci sono alternative reali». E' l'annoso problema delle due Italie che si riaffaccia puntualmente. Spiega il presidente dell'Unione Industriale di Torino, Alberto Benadì: «Mentre al Nord c'è la possibilità di riassorbire chi viene espulso in seguito al collasso di alcuni settori dell'industria pubblica, al Sud le prospettine sono allarmanti: sommando alla disoccupazione giovanile le migliaia di licenziamenti si rischia di creare una miscela esplosiva». La crisi delle imprese a Partecipazione statale ha due aspetti. Il primo finanziario, che vede l'indebitamento raggiungere punte insostenibili, con i creditori che bussano insistentemente alla porta; il secondo di mercato: la produzione di acciaio comune risente della stagnazione economica in campo europeo e anche la cantieristica si trova a dover sciogliere nodi analoghi. Se poi si aggiungono scelte spesso sbagliate (come l'essersi buttati sulla costruzione di superpetroliere dopo la crisi di Suez, senza prevedere che sarebbero state troppo vulnerabili), problemi di gestione e di utilizzo degli impianti il quadro negativo è completo. Gli effetti di questa situazione rischiano di ripercuotersi a pioggia sulle industrie minori che garantiscono gli approvvigionamenti o lavorano pezzi di produzione decentrata. «Queste aziende sono strette tra due fuochi: le imprese pubbliche, che traballano, e quelle private, che hanno ripreso a "tirare", ma con cautela», dice Mattina. «Se la crisi recessiva s'avvita potrebbe esserci un tracollo anche nelle aree settentrionali che finora hanno retto, malgrado gli scossoni». E in Piemonte? «La struttura industriale della regione può reggere ad una caduta di questo genere», afferma Benadì. «Purché non manchino programmi di sviluppo. Tutto dipende dalle prospettive di incremento del prodotto nazionale lordo del prossimo anno. Se l'economia italiana crescerà ad una media inferiore al 2-3 per cento anche la perdita di un solo posto di lavoro sarà una tragedia. Se invece raggiungeremo un ritmo di sviluppo superiore al 3 per cento, riusciremo ad assorbire questta pressione dei disoccupati e a smorzare le difficoltà dell'industria pubblica. Ma per ottenere questo risultato è necessario cambiare mentalità: eliminare incrostazioni vecchie di anni, dare colpi di piccone alle clientele e al "tutto garantito" che ci impediscono di crescere senza rigidità, in modo naturale». Il grosso pericolo, secondo i sindacati, è che questo detonatore costituito dalla minaccia di migliaia di licenziamenti finisca per indurre il governo a salvare comunque l'occupazione senza prevedere alternative reali in termini di riconversione, uccidendo così le poche possibilità di ripresa economica che ancora ci sono. «Bisogna avere nervi saldi e non cadere ancora una volta nella trappola dell'emergenza», sostiene Mattina. «Non basta gettare altri soldi nel calderone senza predisporre piani di ristrutturazione delle aziende decotte, indirizzandosi verso settori collegati alla domanda pubblica. Rinviare gli interventi radicali ad un ipotetico secondo tempo significherebbe rassegnarsi alla logica dell'immobilismo e rendere vana ogni battaglia per l'occupazione che ormai, dal '73 scende inesorabilmente nella misura dell'1-2 per cento». Senza scelte diverse si va dunque verso la «stagnazione permanente». Anche gli industriali sollecitano il governo a «fare finalmente l'imprenditore» e ad abbandonare la strada dell'assistenzialismo fine a se stesso. «Altrimenti», rileva Benadì, «oltre a distruggere ricchezza, si rendono precari anche quei posti di lavoro per i quali si mettono in piedi certe iniziative economiche». Roberto Beliate

Persone citate: Alberto Benadì, Andreotti, Enzo Mattina

Luoghi citati: Piemonte, Suez, Torino