Il manager conta ancora

Il manager conta ancora COME LA CRISI CAMBIA GLI IMPRENDITORI Il manager conta ancora Alcuni, dopo aver seguito' negli Anni Sessanta il modello americano, lo hanno poi rimpiazzato solo in apparenza con una vaga "cultura sociale" - Parlano i sociologi Ardigò e Gallino - Due eccessi: l'aziendalismo esclusivo e il concetto che l'impresa possa risolvere tutti i mali della società - Ma c'è chi ha imparato la lezione ed ha saputo rinnovarsi con fantasia La crisi economica che stiamo vivendo dal 1973 è, con tutti i suoi aspetti negativi, uno «stimolo» nuovo che obbliga a reagire. L'improvvisa scarsità delle risorse, la costante crescita dei bisogni, l'apparire di laceranti spinte sociali hanno creato un miscuglio esplosivo quale non si conosceva negli anni del dopoguerra. Come si sono comportati coloro che si trovano a gestire il nostro sistema industriale, ossia gli imprenditori? Che cosa nascondono le loro lamentele: il desiderio o l'incapacità di fornire risposte innovative? La volontà di trasformarsi o l'incubo della rinuncia? Queste domande ne fanno nascere molte altre, che si riannodano ai problemi fondamentali del nostro Paese: esiste in Italia una crisi di leadership industriale? Sono, i nostri imprenditori e managers, dotati di quella preparazione, di quella mo¬ bilità, di quel coraggio che appaiono sempre più necessari per guidare le imprese in questa fase di capitalismo maturo? Dietro i vecchi capi d'azienda in declino, le nuove schiere hanno la fantasia, la creatività, la «cultura» per districarsi in questo mondo che cambia? Se si guarda alla situazione nel suo insieme, la risposta a tutte queste domande non può essere molto ottimista. Dice il sociologo Achille Ardigò, uno dei più attenti osservatori delle società industriali avanzate: «Non si può negare una profonda crisi di identità e di capacità reattive del management in Italia, crisi che costituisce una delle componenti più cospicue della debolezza strutturale del nostro sistema». E spiega: «Quando, in termini di teoria, Alfred Marshall ha introdotto come quarto fattore della produzione l'imprenditorialità, ha pensato proprio ad essa come ad un elemento che riesca a dare alla combinazione degli altri elementi — terra, capitali, lavoro — il massimo della produttività. In Italia, purtroppo, tale coagulo è venuto progressivamente a mancare, provocando cosi un generale disinteresse (che dalle imprese pubbliche si è a poco a poco spostato anche a quelle private) per un pronto e dinamico iontrollo della produttività, dell'efficienza)). Vecchio modello Il fenomeno ha avuto, secondo Ardigò, una manifestazione addirittura «drammatica» nel cuore dell'Italia moderna, ossia nel mondo del management milanese: «Negli Anni Sessanta — afferma il sociologo — lì "si respirava americano", si era cioè raggiunto un modello avanzatissimo di management, soprattutto in certi settori, come quello delle grosse corporations dell'editoria. Poi, con l'inizio degli Anni Settanta, questo modello è crollato e non è stato sostituito praticamente da niente, perché lo ha solo fittiziamente rimpiazzato una vaga "cultura sociale", che però non ha dietro una sua razionalità, una sua logica, una diversa concezione dell'imprenditorialità, una effettiva capacità di rispondere in maniera nuova allo stimolo nuovo della crisi che ci attanaglia». Quali sono le cause di questo sclerotico atteggiamento? Perché le risposte allo stimolo della crisi vengono sempre fornite o sulla base di quella vaga «cultura sociale» che ricorda Ardigò o sulla base di una chiusa (e spesso nociva) mentalità aziendalistica? Un altro sociologo, Luciano Gallino, scorge le radici di ciò nella «ideologia imprenditoriale» italiana: «La quale — egli dice — si richiama a due componenti fondamentali: quella liberale e quella cattolico-integralista. L'una troppo restrittiva, l'altra troppo ampia. Per l'una l'impresa deve unicamente produrre, e può quindi ignorare i problemi della qualità della vita, dell'emigrazione interna, dell'organizzazione del lavoro, dell'ambiente: sappiamo tutti bene quali e quanti guasti ha prodotto tale orientamento. Per l'altra componente ideologica, l'azienda diventa in fondo lo strumento per risolvere tutti i mali possibili della società e deve essere quindi il soggetto che si fa carico dell'assistenza pubblica, della sicurezza sociale, dei trasporti, dell'inquinamento, e così via». Il non saper rispondere alla crisi in maniera innovativa dipende soprattutto, secondo Gallino, dal non sapere trovare una articolata mediazione tra questi due estremi. Se tutto ciò è vero in generale, non mancano però le eccezioni. Vi sono nella realtà piccoli, medi e grandi imprenditori per i quali la crisi è veramente servita non ad una semplice modifica di atteggiamento, ma ad una vera e propria rivoluzione psicologica e comportamentale. Sono loro, forse, i semi del cambiamento che potrà avvenire nel futuro. Ne parliamo con Luigi Bertinetti, un medio imprenditore torinese che opera nel campo della protezione anti-corrosiva dei metalli (è sua l'opera di rivestimento di numerose raffinerie, dalla Svezia al Golfo Persico) e che figura tra i personaggi emergenti (quasi a dispetto, si direbbe, della sua naturale ritrosia) nel gruppo battagliero dei Giovani Imprenditori. «Pur con tutte le amarezze che ci ha dato e continua a darci — afferma Bertinetti — la crisi ha certamente un suo effetto positivo: ci fa tornare a scuola (non solo metaforicamente: siamo in molti a seguire continuamente corsi di aggiornamento), ci impone di correggere e talvolta di ribaltare le gestioni aziendali avvalendoci di tutti i tasti possibili, ci aiuta a maturare per comprendere meglio le esigenze dei nostri partners sociali e le esigenze della comunità nel suo insieme». Tutto quello, insomma, che non è avvenuto, né poteva avvenire, negli anni «troppo facili» del boom: «Io allora — ricorda Bertinetti — ero molto giovane e preoccupato di ampliare la piccola azienda di quattro persone ereditata da mio padre. Ma capivo già, seppur confusamente, che così non poteva andare avanti. Era fin troppo semplice fare l'imprenditore, badare ad accumulare soldi, sparire magari all'improvviso (come Felice Riva) lasciando sul lastrico migliaia di famiglie. Bastava produrre qualcosa e si vendeva con grande profitto: e il profitto era l'unica molla di una spirale consumistica esasperata che gli imprenditori contribuivano a rinfocolare continuamente. Oggi la necessità della mediazione, del dialogo, del confronto ci impone di riflettere, di capire, di reagire con spirito moderno». Un innovatore Nella sua azienda (che è strutturata come una micro-holding con diversi settori di attività) Bertinetti ha già attuato una sorta di «rivoluzione manageriale», proprio in concomitanza con l'aggravarsi della crisi: «L'obiettivo — dice — è una massima responsabilizzazione e partecipazione di tutti i collaboratori, non a parole, non suila carta, non attraverso gli strumenti burocratici del pansindacalismo all'italiana, ma nella concreta attività di tutti i giorni». Il principio ispiratore di questa nuova impostazione è che «tutti coloro che intendono esprimere in qualche modo la propria personalità hanno lo spazio reale per farlo». Ma in pratica, che cosa avviene? «Innanzitutto, lavoriamo molto assieme. Io ho un ufficio mio, ma passo la maggior parte del tempo ad un'altra scrivania, vicina ai miei collaboratori: una specie di "spazio aperto", insomma, che suggerisce la sensazione di un lavoro effettivamente svolto in comune». Ma, andando ancora più in là, Bertinetti ha in pratica cominciato a frantumare il principio (così radicato nel capitalismo del XX secolo) della super-specializzazione: «I miei collaboratori e io stesso ruotiamo attraverso le varie attività e i vari settori dell'azienda: acquisti, vendite, contratti, visite a clienti stranieri. Addirittura fino all'estremo: ad esempio, io so come far funzionare il telex o il centralino telefonico, e un contabile è andato almeno una volta in Medio Oriente a trattare la protezione di una raffineria». Con tutto ciò, «si perde forse qualcosa in competenza, ma si guadagna molto in entusiasmo». E' chiaro che si tratta di un sistema ben difficilmente applicabile a grossi organismi rigidamente strutturati, «ma almeno lo spirito che è alla base di questa iniziativa può essere valido per tutti, e tutti farebbero bene a meditarci sopra, specialmente oggi che i dipendenti ovunque chiedono, con sacrosanta ragione, di non essere considerati dei numeri ma degli esseri umani». / risultati di questo «nuovo spirito», di questo ambiente creativo ricco di stimoli, non si sono fatti attendere: «Si dica quel che si vuole, ma oggi, in un momento in cui tutti affrontano le paludi della recessione, noi abbiamo un problema opposto: quello di frenare le nostre potenzialità espansive». Certo il fervore e l'entusiasmo non bastano: «Eisogna anche avere un tempismo eccezionale, sapere prevedere i movimenti, come il maestro in roccia riguardo al suo allievo. Ma anche qui, se molto dipende dalla creatività dell'imprenditore, una gestione più corale contribuisce non poco a dipanare la matassa. Noi finora — e il merito non è certamente mio soltanto — siamo sempre riusciti a tirare i remi in barca o a schiacciare l'acceleratore al momento opportuno, cioè un attimo prima degli altri». Il che è certamente un aspetto di quella sana imprenditorialità vagheggiata da Ardigò sulle orme di Marshall. Carlo Sartori

Luoghi citati: Italia, Medio Oriente, Svezia