Dai fatti del calcio un romanzo vero

Dai fatti del calcio un romanzo vero "AZZURRO TENEBRA,, ULTIMA SFIDA DI ARPINO NARRATORE Dai fatti del calcio un romanzo vero Tema: il campionato mondiale del 1974 a Monaco; protagonisti: giocatori, dirigenti, giornalisti; coro: i nostri emigrati in Germania - Ma il significato del racconto va ben oltre il fatto sportivo - Che cosa ne pensano oggi i personaggi coinvolti Dopo tante partite viste dalla tribuna stampa, dopo tante esperienze maturate anche attorno allo sport, Giovanni Arpino si è come stancato di fare da spettatore, sia pure spettatore particolare in quanto giornalista, ed è entrato in campo. Il suo nuovo libro rappresenta, per restare al mondo del calcio che ne è protagonista e sfondo, un «tackle» che altri sinora non hanno tentato. «Tackle» — per chi segue il calcio — è il momento della verità, del maggiore coraggio, l'istante in cui si deve affrontare a viso aperto e muscoli saldi l'avversario (nel caso il pubblico, la critica, lo stesso convulso e suscettibile ambiente del pallone). Una fase particolare della gara, anche uno sfogo, una liberazione. Azzurro tenebra è infatti uno sfogo, una liberazione. Prima che un libro sul calcio e dentro al calcio è un romanzo. E sarà una rivelazione per chi limita a semplici sensazioni emotive, epidermiche, il suo interesse per uno sport tanto popolare e discusso. Una rivelazione il libro lo è già stato per i pochi che l'hanno letto. Amici, colleghi, personaggi coinvolti («mai stravolti ma coinvolti» dice subito Arpino, precisazione persino superflua per chi conosce il «giro» di cui egli parla) nella storia che esce dalle nebbie di Ludwigsburg e di Sindelfingen, dove giocatori, giornalisti, tifosi, consumarono il dramma sportivo ed umano del campionato mondiale di calcio del '74, in Germania, quando la squadra azzurra fu estromessa dopo tre partite, con dolente sorpresa di molti e con una tragica delusione per i nostri emigrati. Luoghi e fatti sono citati con esattezza cronistica per ancorare le pagine ad una realtà precisa; ma Azzurro tenebra è nato ben prima ed è proiettato sul domani. Ha le sue radici ai 2400 metri di Città del Messico, dove Arpino per la prima volta ha vissuto, coinvolto anche lui, le vicende di un campionato mondiale e dove ha conosciuto da vicino le storture e le strutture di quel Barnum che è la Nazionale di calcio: venti giocatori, più dirigenti, tecnici e giornalisti uniti ed opposti allo stesso tempo, ciascuno con i propri interessi che vanno dal ruolo in squaara da mantenere o da conquistare, alla notizia da nascondere p da strappare. E il libro guarda al domani perché nel giugno prossimo ci sarà un altro «mondiale», che Arpino stesso si augura meno tenebroso. Per chi è dell'ambiente, i personaggi del libro fedito da Einaudi e da oggi in libreria) trovano un'immediata identificazione. Il lettore incontrerà forse qualche dubbio nell'accoppiare nomi, tutti abbastanza scoperti comunque, a persone, ma non potrà aver dubbi sulla loro realtà. Azzurro tenebra è di un tremendo impegno anche per questo: tutto è controllabile, verificabile alla fonte (persino gli stati d'animo, le pieghe più segrete dei dialoghi serrati e crudi) una volta risolto l'affascinante giochetto del « chi è ». Facchetti capitano Un interrogativo è subito sciolto dalla copertina. Giacinto Facchetti esce da una cornicetta azzurra e lo si incontrerà poi più volte all'interno, prototipo del campione sereno, e più ancora dell'uomo limpido e coerente. Facchetti, capitano della Nazionale, è uno dei pochi protagonisti che si sono già letti sulle pagine di Arpino. Ne ha avuto uno choc, o quasi. «Dopo tanti anni di carriera — è stata la sua reazione immediata — ho capito finalmente voi giornalisti, sino in fondo. La vostra partecipazione, il modo in cui vivete certe emozioni e le nostre stesse ansie, magari dandoci l'impressione di essere dalla parte opposta della oarricata, noi sul banco degli accusati e voi i giudici. L'ho capito soprattutto dal distacco, dal calo di interesse che Arp dimostra dopo l'eliminazione dell'Italia, dopo la no¬ stra sconfitta di Stoccarda. Una cosa palpabile, come se le altre gare non avessero più senso». Facchetti non entra nel tono rabbioso e crudo di certi discorsi, nella sostanza delle accuse e delle rivelazioni. Lo fa senza remore Enzo Bearzot, commissario tecnico della Nazionale, ai tempi di Ludwigsburg «spalla» di Ferruccio Valcareggi. Il «Vedo» ricorda bene: «Eravamo come assorbiti da un solo tema. L'uomo quando è caricato e concentrato in questo modo è come fosse drogato, si tratti di football o altro. Non dimentichiamo che per noi è un lavoro, uno stress. Un periodo della mia vita passato con il paraocchi, pallone e solo pallone. Anche se Arp mi dava altri spunti, io continuavo a parlare di calcio. Rileggendomi, ora trovo dimensioni più giuste. Parole e frasi dure, mie e degli altri. Reale, crudo. Non sono pagine forti, ad effetto; è solo lo specchio di come la gente reagisce a certe situazioni particolari». Conferma Giglio Panza, uno dei giornalisti sportivi più esperti e temprati: «Di ciò che è accaduto a Ludwigsburg, attorno e dentro la squadra, Arpino rivela solo una parte per educazione, discrezione e buon gusto. Ma basta, per capire che accaddero cose da voltastomaco. Il libro prova a posteriori una irritazione che accomunava molti; è una reazione meditata ad un dolore vero, intenso. Anch'io in quell'occasione sono andato fuori dei gangheri, eppure dalla Corea in poi ne avevo già viste tante. Lo sdegno di Arpino è quindi il mio, il nostro di allora. Certo, queste pagine rivelano un amore profondo e totale per il calcio ». Arpino testimone e protagonista, quindi. Protagonista scoperto e sincero sino in fondo. Alle prime reazioni di «addetti ai lavori» fa da contrappunto quella di Guido Davico Bonino, critico letterario, stavolta soprattutto lettore non coinvolto: «Settanta pagine per sera, ogni volta un'emozione diversa. Prima ho pensato: è un libro sul calcio. Poi mi sono detto: è qualcosa di più, uno spaccato su un mondo particolare. Alla fine mi sono convinto: è un romanzo che riporta alla "ricerca dell'identità", che riporta a Freud, e non per fare delle citazioni dotte. I protagonisti sono tesi alla ricerca di capire chi sono, c'è una spaventosa insoddisfazione in tutti, e se la buttano addosso l'un l'altro. E' un libro nevrotico, con un tempo estremamente teso, concitato. Le sequenze di dialogo sono durissime, i vari Arp, Vecio, Bibì, Giacinto si rincorrono in una storia di solitudini. Arpino spinge sino alle estreme conseguenze il suo oarocco quotidiano arrivando a livelli di grande violenza espressiva, di volgarità anche. E' il romanzo sgomento di un innamorato del calcio, del suo lavoro. Un libro assai sofferto, credo, e che intriga da più punti di vista. Ne è coinvolto anche lui, in prima persona». Nessuno dei protagonisti si tira indietro, anche se qualcuno ritrovandosi nelle pagine ha avuto un contraccolpo. Bruno Bernardi, il più vicino ad Arpino nelle battaglie quotidiane di Ludwigsburg e Stoccarda, precisa con un pudore che non è rifiuto della realtà: «Tutta l'avventura, così rabbiosa e dura, va collocata in un momento particolare. Un periodo irripetibile per tensioni, nervosismo, amarezze. La mano di Arpino non ha intaccato le sensazioni che si provavano in quei giorni. Chi non vive certe esperienze forse stenterà a credere. Le interviste, la caccia ai telefoni, la lotta contro gli orari, le difficoltà ambientali, tutto si acuisce in un momento in cui un centinaio di persone è lì a battersi attorno allo stesso osso, o bistecca che sia. Il tifo è magari un tantino "patriottico" ma lucido, la partecipazione ad una partita dalla tribuna stampa non è eccitazione, consente anzi di entrare meglio nell'argomento. Per chi ha dato quattro calci al pallone, poi, un tipo di adesione parlata, magari gridata, all'avvenimento è una forma di sentircisi dentro. Di sentirsi protagonista quasi alla pari di chi sta in campo». Quella dì Bibì non è una difesa, semmai una conferma. Aggiunge: «Non è un libro sui giornalisti, ma su un periodo di vita stravolta. Ognuno era lì con i suoi problemi, le sue ansie. Chi dava i numeri per lo stress, chi tirava r.ioccoli perché in Italia il suo giornale non lavorava, e lui non aveva lo i sfogo del servizio da dettare, non poteva scaricarsi sulla macchina da scrivere. Ognuno a suo modo, Jene 0 Belle Gioie, tutti a fare tifo, almeno per la propria causa». La causa si identifica spesso con la difesa di se stessi, con la professione. Ricordo che a Stoccarda raggiunsi Arp e Bibì in occasione di Italia-Polonia. Mi sorpresi quasi ad andare contro gli azzurri. Avevo seguito per La Stampa le precedenti gare dei polacchi, avevo scritto che erano forti, fortissimi. Se battevano i nostri la mia «causa» era vinta, era la conferma che non mi ero sbagliato in certi giudizi. Coinvolti e quasi stravolti? Chissà. Arpino esce allo scoperto anche per quanto concerne 1 rapporti di amicizia. Qualcuno potrà trarne conclusioni maligne. Il «Vecio» Bearzot contrattacca subito: «Tutto fra me ed Arp è accaduto e accade nel modo più semplice e vero, tutto quello che sentivamo eccolo su un piatto, tutto quello che dicevamo è lì, in quelle pagine. Ne esce magari il quadro di un mondo irreale, ma in quel momento non lo era. Io sono amico di tutti, sino a quando non vedo la malafede. Qualcuno è arrivato a dire che Arpino è il mio ufficio stampa. Io non gli ho mai chiesto "Giovanni, aiutami", anche nei momenti più difficili. E' la verità, di quei giorni come di oggi. Sono sempre stato portato a credere al prossimo, sino a quando mi sono accorto che vogliono approfittarne. Adesso, leggendo, rivedo i momenti di allora. Assoluzioni e condanne date a caldo, tutto comprensibile anche se crudele». Poi il «Vecio» Enzo gioca ir. difesa: « E' chiaro che da certi momenti di tensione ne esci. Prendi il primo treno, ti allontani dal punto della tragedia o del trionfo e vivi di nuovo la vita per quello che rappresenta realmente». Ma aggiunge che certe situazioni si possono ripetere: «L'esperienza ricordata nel libro non è un vaccino. Se la circostanza si verifica di nuovo, il ricordo ti aiuta sino a metà. Se provi una gioia ti dici: attento, lo sai che dura poco. Se soffri invece torni dentro al dolore ed alla rabbia sino in fondo, all'ultima goccia». Vecio, Arp, Bibì, Giacinto, Baffo, Zìo, Gauloise, il Manager, Bomber e Golden, Giorgione, Puck, Grangiuàn, Veneziano, Bologna... Sono in molti a partecipare, entrando ed uscendo, al gioco della verità di Azzurro tenebra. Aggiunge Bernardi: «Forse Arpino poteva allargare ancora il gruppo dei suoi personaggi ma il nocciolo è lì, anche nella sua sofferenza psrsonale di quei giorni. La soluzione negativa dell'avventura dei nostri calciatori è stata una chiave, ha fatto da molla. Se gli azzurri avessero vinto il mondiale, tante motivazioni sarebbero cadute». Quasi un dramma La conferma che si tratta di un dramma, quindi. Facchetti sembra però addolcire l'impressione: «Si chiude con la nascita di mio figlio, con l'invito a Bearzot di ricostruire qualcosa, magari con qualche mattone vecchio, uno dei quali potrei essere io. E la nascita di un bimbo è sempre espressione di fiducia...». Poi torna indietro con il pensiero e sbotta: «Il romanzo di Arpino testimonia su quei tempi, senza distorsioni. Chi ne esce male se lo è meritato». E sono in molti ad uscirne male. Di fronte ad alcuni uomini « colpevoli » non tanto di aver perso una battaglia sportiva — non sarebbe peccato grave — ma di aver confuso convenienza ed onestà, paura e coraggio, il coro dei tifosi in Germania, dei nostri lavoratori per i quali un buon risultato sul campo sarebbe stato motivo di rivalsa sulla grama vita di tutti i giorni. Anche loro fuori dalle regole, colpevoli di confondere football e bandiera, ma almeno sinceri e puri nella loro rabbia. Una rabbia che fa da sfondo, ed a suo modo riscatta, le tenebre azzurre di Ludwigsburg. Bruno Perucca GIOVANNI ARPINO AZZURRO TENERRA