Russia senza amore

Russia senza amore LE LETTERE DI CUSTINE, OGGI Russia senza amore Dei due, quello del più giovane è senza dubbio il più noto e il più celebrato: eppure c'è qualche ragione per ricordarli assieme, i due nomi — quello di Alexis de Tocqueville e quello di Astolphe de Custine, viaggiatori ottocenteschi, che intorno agli Anni Trenta del secolo scorso raccolsero nei loro viaggi singolari notazioni che serbano ancor oggi un valore esemplare. Molti tratti li accomunano, questi due gentiluomini francesi dall'intelligenza penetrante e dalla curiosità insaziabile: non soltanto l'illustre casato e il distacco signorile col quale si guardano intorno ed appuntano i dati e le notizie raccolti nelle loro peregrinazioni, ma l'intento stesso che li muove al viaggiare, che non è tanto quello di scoprire terre e Paesi ancor poco noti, quanto di studiarne le istituzioni e i costumi per trarne conclusioni valevoli per giudicare le cose di Francia e d'Europa. Tocqueville, nel 1831, punta all'Occidente. Liberale di animo e democratico per ragionata convinzione, si reca ancor giovanissimo negli Stati Uniti d'America per conoscere come funziona, al limite della nuova frontiera, quella democrazia che la Francia ricerca e desidera ma non è riuscita ancora, malgrado tanti rivolgimenti, ad attuare. Scopre una democrazia assai diversa da quella dei Giacobini. L'immagine che egli ne dipinge, nel suo grande libro La democrazia in Aitterica, rimarrà per più di un secolo l'archetipo della democrazia liberale. L'ammonimento che egli rivolge ai posteri è quello che riassumerà qualche anno più tardi in una frase famosa: che non basta « piazzare la testa della libertà su di un corpo servile », come avevano creduto di fare i rivoluzionari francesi; perché soltanto là dove i cittadini imparano a governarsi nel piccolo sapranno come governarsi su di una scala maggiore. Custine, invece, punta all'Oriente. Deciso avversario della democrazia, si reca, non più giovanissimo, in Russia « per cercarvi argomenti contro il governo rappresentativo ». Discepolo di Maistre, sogna il rimedio ai mali della Francia nel ristabilimento della monarchia assoluta, e s'immagina di trovarne il modello nell'autocrazia degli zar. Ma non ha neppur ancora toccato il suolo della Russia quando già si accorge, dai primi contatti coi sudditi dell'Imperatore, che il dispotismo, come già aveva avvertito Montesquieu, ha una molla sola, che ne costituisce ad un tempo la cagione e l'effetto: questa molla è la paura. In pochi mesi, dal Luglio all'Ottobre del 1839, il suo giudizio è fatto. I russi sono un popolo di schiavi, e neppure il meglio intenzionato dei sovrani, costretto dall'onnipotenza che detiene a mantenere i sudditi in uno stato di perpetua dipendenza che soffoca ogni iniziativa e favorisce la menzogna, i sospetti e la delazione, potrebbe mai fare di esso un popolo libero sul modello degli altri popoli europei. Né ciò basta: perché come blocco monolitico di forze e di volontà fondato sull'obbedienza cieca e assoluta, la Russia costituisce una minaccia per l'Europa. Custine lancia un grido d'allarme che non giungerà sgradito in una Francia tuttora scossa dalla brutalità con cui le truppe dello zar hanno appena represso il moto di liberazione polacco. Il libro che egli compone si trasforma in un pamphlet violentissimo proprio contro quel sistema assolutistico di cui, a mezzo il secolo, la Russia rappresentava l'ultimo perfetto esemplare. La propaganda Le lettere di Custine dalla Russia, pubblicate nel 1843 col titolo La Russie en 1839, ebbero un grande successo immediato, non però certo paragonabile a quello dell'opera di Tocqueville. All'opposto di questa, caddero presto nell'oblio, ed il loro autore si sarebbe certo meravigliato nell'apprendere l'interesse che, da qualche decennio, esse sono improvvisamente tornate ad avere per certi editori. La ragione è abbastanza semplice: il giudizio di Custine sulla Russia si presta infatti assai bene ad esser sfruttato non soltanto in funzione antirussa, ma antisovietica. Durante l'occupazione tedesca un editore parigino ne curò un'edizione che circolò largamente fra gli ammiratori dell'Asse: non si trattava di una pubblicazione integrale dei quattro volumi originari di quattrocento pagine ognuno, ma di una scelta sapientemente capziosa; e tale è anche la scelta che oggi ci propone l'editore Fògola in una tipograficamente bellissima e persine un po' leziosa edizione della collana « La Torre d'avorio »: trecento pagine di testo e quaranta di introduzione. Lo scopo questa volta è apertamente dichiarato: il libro, si legge nella presentazione editoriale che riassume una tesi ampiamente sviluppata nell'introduzione, « appare la migliore chiave per penetrare i misteri della Russia politica: zarista, comunista, conta poco. Una nazione non sfugge ai suoi dèmoni famigliari... Ma c'è ancora qualcosa di più. C'è la degradazione dell'autocrazia russa da dispotica a demenziale, c'è il passaggio dalla Russia di Nicola I a quella di Stalin e di Breznev. Se Custine poteva aver l'aria, allora, di esagerare i toni, oggi le sue Lettere posson esser lette in parallelo coi passi di Solgenitsin, di Amalrik, di Siniavski, di tanti altri. E' il trionfo postumo di una caricatura. Una verità intuita da uno scrittore, su cui si sono modellati i fatti ». Non dubito che, presentato in questa prospettiva e in questa veste, il libretto testé uscito alle stampe troverà un buon numero di lettori fra i nostri compatrioti. I miei dubbi riguardano il valore da attribuire ad una scelta arbitraria e tendenziosa, che esclude tanta parte dell'opera originale e appar dettata quasi unicamente dallo scopo di fornire argomenti alla polemica antisovietica e all'esaltazione delle istituzioni occidentali. Un aristocratico L'ammaestramento che si può trarre dalle pagine di Custine è invece alquanto ambiguo, e fa specie che non se ne siano resi conto i suoi moderni editori, quando tale ambiguità balza chiaramente alla luce dal semplice confronto con l'altra opera, quasi contemporanea, del tanto più grande Tocqueville. Custine dichiara bensì, sin dall'inizio dell'opera, che il viaggio in Russia gli ha rivelato i mali dell'autocrazia e 10 ha convertito agli « ordinamenti costituzionali ». Ma il suo atteggiamento politico rimane sostanzialmente scettico nei riguardi di ogni possibile alternativa. A differenza di Tocqueville, che fermamente crede nella possibilità di conciliare l'individualismo liberale coll'ugualitarismo democratico, e ne indica i mezzi, Custine non offre alcun rimedio ai presunti mali del suo Paese, ma soltanto un aristocratico disprezzo per quel governo rappresentativo che egli considera null'altro che « una tregua stipulata fra la democrazia e la monarchia sotto gli auspici di due tiranni molto bassi, la paura e l'interesse, prorogata dall'orgoglio intellettuale che si pavoneggia dell'eloquenza e dalla vanità popolare che si accontenta delle parole. In definitiva, è l'aristocrazia della parola sostituita a quella del sangue; è il regime degli avvocali ». E gli basterà un breve incontro coll'autocrate di tutte le Russie per sentirsi « soggiogato », « dominato » dalla « nobiltà dei suoi sentimenti » e per tornare ad accarezzare l'ideale dell'ottimo principe, del paternalistico governo di un sovrano assoluto. Basterebbe una ragione come questa per rendere l'utilizzazione delle « lettere » di Custine in chiave anticomunista alquanto speciosa. Ma ce ne sono anche altre, passate esse pure sotto silenzio dai loro novissimi cultori. Il regime sovietico « degradazione demenziale » dell'autocrazia russa; Nicola I, e prima di lui Ivan 11 Terribile e Pietro il Grande, antesignani di Stalin e di Breznev; il ferreo giogo cui oggi è sottoposta la Russia semplice variazione del dispotismo imperante da secoli in quell'infelice Paese; infine, last bui not least, l'espansionismo moscovita minaccia all'Europa: sono tutti argomenti che si possono capovolgere, o più esattamente, sono argomenti che provano ad un tempo troppo e troppo poco. Perché si potrebbe anche dire, con uguale ragione, che se il comunismo ha potuto assumere il volto disumano che ha assunto in Russia, la colpa non è del comunismo ma del popolo russo, « servile », « timoroso » (sono parole di Custine) per natura e per lunga assuefazione, e che non ne consegue affatto che il comunismo debba assumere lo stesso volto qualora prevalesse in altri Paesi, assuefatti al pluralismo ed alla libertà delle opinioni e delle scelte. Osservazioni non molto dissimili si potrebbero fare a proposito dell'espansionismo della Russia: il semplice fatto che esso apparisse già così minaccioso agli occhi di Custine (ma già ne avevano avvertito il sorgere, sin dal Settecento, scritI tori chiaroveggenti come Rous¬ seau ed il nostro Filangieri) potrebbe esser un indizio che la Russia non ha aspettato di diventare la Mecca del marxismo per avanzare la pretesa ad un controllo degli affari europei. Quanto infine ai « dèmoni famigliari », al destino che sarebbe proprio di ciascun popolo, e che, nel caso del popolo russo, sarebbe quello di una perpetua servitù, mi sembra che sia questo un argomento che sarebbe meglio lasciar da banda in questo contesto, non soltanto perché è un argomento altamente contestabile, ma anche perché contraddice nettamente la tesi che si vorrebbe provare: se la servitù è davvero per i russi un destino inevitabile, non si vede perché lo dovrebbe essere per altre nazioni il cui destino è stato finora, tranne per brevi intervalli, orientato in tutt'altra direzione. Tali le riflessioni (ma sarebbe forse meglio dire le reazioni) che ha destato in me questo libretto dacché me lo son trovato fra le mani. Debbo però confessare che la mia scarsa simpatia per l'autore delle Lettere dalla Russia non è di oggi soltanto. Sin dalla mia prima conoscenza di quei suoi scritti ho provato fastidio per l'albagia di questo gran signore francese, nostalgico dell'antico regime e insofferente di quello nuovo, che a differenza dagli emigrati dello stesso suo ceto ai tempi della Grande Rivoluzione, sembra non aver appreso nulla, ma anche di aver tutto dimenticato. Certo dal suo soggiorno nella patria dell'assolutismo Custine non ha tratto alcuna indulgenza per la laboriosa gestazione che si sta compiendo in Francia di un regime che riparando ai mali dell'assolutismo, monarchico o democratico che sia, assicuri a tutti i cittadini la sicurezza nella libertà. Ha per contro dimenticato che anche il suo Paese non ha le carte perfettamente in regola per quanto riguarda i difetti che egli con tanta virulenza attribuisce altrui. Espansionismo aggressivo quello della Russia: ma non fu forse la Francia la maggior potenza aggressiva in Europa per almeno due secoli, da Luigi XIV a Napoleone? Servile il popolo russo, dalle classi più umili alla più alta aristocrazia: ma non lo furono altrettanto i servitori dell'uno e dell'altro padrone della Francia, e non impararono forse ad esserlo in tempi più recenti anche altri popoli, compreso ahimè anche il nostro? Sarei davvero curioso di conoscere l'effetto che queste « lettere » potranno avere su dei lettori così smaliziati come sono gli italiani. Potrebbe darsi che fosse proprio l'opposto di quello sperato dai loro editori. A. Passerin d'Entrèves