In un fosco presbiterio di Lorenzo Mondo

In un fosco presbiterio L'avvincente romanzo di Praga-Tarchetti In un fosco presbiterio Emilio Praga - Roberto Sacchetti: « Memorie del presbiterio », Ed. Einaudi, pagine 247, lire 3500. Alla collana Centopagine diretta da Italo Calvino non poteva mancare questo romanzo, e mi pare giusto che, per la prima volta, Memorie del presbiterio venga assegnato anche in copertina, oltreché a Emilio Praga che lo avviò, a Roberto Sacchetti che lo concluse e, probabilmente, rimaneggiò. Ci troviamo nel secondo Ottocento, entro l'area della Scapigliatura e dei suoi derivati. Praga muore a 36 anni senza finire il suo unico romanzo che aveva promesso al settimanale II Pungolo; Sacchetti muore a 34 anni nel 1881 quando l'opera, da lui compiuta e pubblicata sulle appendici del giornale, è stata appena raccolta in volume. Questi cenni bastano ad evocare un clima di vite bruciate e di dure servitù editoriali che appartengono alla realtà e alla leggenda di quegli anni. Ma l'attrattiva del romanzo risiede in una somma di altri motivi, ben più sostanziosi. Il primo seme del libro risiede in una poesia di Praga datata 1863 e intitolata Memorie del presbitero, che racconta di un santo sacerdote sospetto alle autorità religiose per i suoi sentimenti liberali («e il vescovo narrò ch'egli è perduto — perché cantava il dì dello Statuto»). Il tema politico avrebbe dovuto entrare nel romanzo ma in posizione laterale e, a giudicare da quanto rimane, assai modificato e perfino ribaltato, come si addice all'usura e alle delusioni post-risorgimentali. Il retto don Luigi trova il suo antagonista nel sindaco anticlericale, un signorotto vizioso e brutale cui riesce ciò che fallì al manzoniano don Rodrigo: la violenza esercitata su una giovane sposa stende luci drammatiche sulla prima tranche del romanzo, preparando la sicura vendetta del marito offeso. Si dissolvono così le illusioni idilliche di chi narra in prima persona; di chi, vagabondando per le montagne, pensava di ascendere al tempio della natura incorrotta. E se l'autore (in questo caso Praga) lascia trasparire una polemica antiborghese, forse anticittadina, non risparmia neanche i montanari, rappresentati con stigmate di fisica e morale deformità. L'atteggiamento dell'autore viene espresso emblematicamente, mi pare, nella descrizione dello Strona, «il torrente più realista e indocile alla moralità idrografica ch'io mi conosca», nemico della convenienza e della norma, attentatore, con l'alternanza di piene e siccità, degli onesti guadagni e della «sacra prosperità della famiglia». Ma l'irregolarità del suo corso, le continue diversioni e i subitanei interramenti, alludono anche a ferite più fonde e universali, sono il segno di una natura caduta, di un metafisico male. E insieme, rendono immaginosamente lo stile divagante e impressionistico, tutto spezzature c riprese, di Emilio Praga: altro dato che non bisogna trascurare, come una delle possibili risposte al modello manzoniano, come indicazione di una linea narrativa che si giova di Jean-Paul e di Sterne anziché di Flaubert. Fin qui siamo a una metà stentata del romanzo: quella che il curatore Giuseppe Zaccaria, dopo attenti riscontri e spogli lessicali, attribuisce con buon fondamento a Praga. Poi interviene Sacchetti. Soccorso da un maggiore e più spregiudicato mestiere, conferisce al romanzo un andamento più articolato e serrato e, talora, banalmente spicciativo (nel capitolo in cui si sciolgono tutti gli enigmi). Sacchetti, pur sforzandosi di restare fedele all'ami¬ co, ne esaspera a proprio genio temi e situazioni al di là dell'assunto iniziale. E' congettura felice di Zaccaria che appartenga tutta a Sacchetti, e non al misogino Praga, la parte relativa alla «colpa» dì don Luigi: questi ha ceduto alla passione ingenua e pulita, ma contraria al proprio stato, per una ballerina giunta in paese a medicare le ferite della città; di più, il prete ha sopportato per timore dello scandalo e di un male peggiore che il figlio nato dalla relazione fosse attribuito ad altri, fosse avviato alla triste carriera dell'abatino... Insomma, le intricate vicende e i colpi di scena da feuilleton non concedono immunità dal male, tutti appaiono in vario modo colpevoli. Memorie del presbiterio vive di queste calcolate e casuali ambiguità, quelle della progettazione e quelle legate alla sua natura di giallo editoriale, di pastiche strutturale. E si rivela, al fondo, un romanzo della crisi: nei confronti dello Stato unitario e del provvidenzialismo cristiano di Manzoni, con accenti già fogazzariani. Ho parlato di pastiche strutturale e non linguistico: certo vago espressionismo ascrivibile soprattutto a Praga («I galli, sparsi qua e là nelle soffitte e nelle cantine, eruttavano il loro rantolo singhiozzoso...») si accompagna infatti, sulla stessa pagina, a insopportabili e fin umoristici toscanismi. Eppure, testimone anche di quest'altra croce della nostra letteratura, il romanzo avvince e si legge alla svelta, senza tenere conto degli appigli che son venuto enumerando: come se esemplasse il trionfo dello spirito romanzesco allo stato elementare. Un piccolo miracolo a due mani per la nostra storia letteraria e un altro buon motivo, mi pare, per festeggiarne il ritorno. Lorenzo Mondo Emilio Praga

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