Triste fiaba a New York

Triste fiaba a New York CON FERRERI MENTRE GIRA L'ULTIMO FILM Triste fiaba a New York E' un'altra storia d'amore e di morte - Anche la scimmietta, prima protagonista, ha un valore di simbolo: come la piccola spiaggia stretta dagli incombenti grattacieli (Dal nostro corrispondente) New York, ottobre. Se Marco Ferreri, l'autore dell'Ape regina, della Grande abbuffata, dev'Ultima donna, viene a fare un film a New York è difficile immaginare la situazione o la storia. Se ve la racconta, è difficile credergli. Ferreri è elusivo, paradossale, e con quel suo spostarsi indietro per guardare l'interlocutore dagli occhi spalancati e solo apparentemente candidi, non promette mai di dire la verità. Inoltre Ferreri inventa tutto, sempre, cambiando se stesso e le cose che tocca, e questa è la sua magia. Da anni, questo regista italiano che ha cominciato in Spagna (El Cochesito;, scrive in francese e si misura adesso con la natura che gli è completamente estranea (ma lo è davvero?) del mondo americano, sta tenacemente narrando la stessa storia. Ferreri è ossessionato dal fatto che intelligenza, coerenza, lucidità, buona organizzazione, efficienza degli uomini siano tante armi lucenti puntate sull'unico fine della distruzione reciproca (uomo-uomo, uomo-donna) e poi dell'autodistruzione. Lo spettacolo che vede davanti ai suoi occhi (che sembrano incantati, che vedono solo, a quanto pare, cose meravigliose e terribili) è quello di un ostinato autocannibalismo. Non, dunque, visioni tradizionalmente apocalittiche. La distruzione che vede Ferreri non divide il mondo in robot feroci e vittime tenere, non immagina l'anestesia di una folle incoscienza o di una tremenda determinazione (i topi che si buttano in mare). Ripensando ai bellissimi film che ìia già fatto (e che lo mettono nel piccolo gruppo dei tre o quattro grandi registi che tirano il filo dell'immaginazione collettiva e la cambiano) quello che ve¬ de (e che fa vedere) è la ferita nel corpo indifeso di creature suicide e assassine senza voglia e senza motivazione. Il programma di morte è già in marcia da tanto tempo e quando le vittime sono raggiunte non succede niente di eccezionale, tranne dolore e morte, dopo un po' di tenerezza, di affetto, e un disperato tentativo d'amore. Ma osservando Ferreri che si aggira meravigliato in quelle parti di New York che nei romanzi d'appendice si chiamerebbero « i bassifondi» mi devo chiedere — da persona che pretende di avere familiarità con l'America — che razza di rapporto potrà stabilire con questo Paese, questa cultura. Sono estranei, sono nemici, sono incompatibili l'America e lo strano regista di storie tremende e bellissime? Ho detto che Ferreri racconta una vicenda che sembra un po' folle, diverte (è un narratore vivace, animato da una strana gioia, le poche volte che parla) ma che non garantisce affatto di essere il film. La storia è facile da raccontare proprio perché è assurda, e non credo che toglierò tensione allo spettacolo se anticipo quello che so. Vicino a King Kong Dice Ferreri: un uomo trova una piccola scimmia nella carcassa abbandonata di King Kong su una spiaggia vicino a New York. La piccola scimmia diventa suo figlio, il suo amore, il suo orgoglio. Ma si può essere padri? In qualche modo, alla fine, questo amore, e il suo oggetto, vengono selvaggiamente distrutti. Come l'uomo dell'Ape regina, come la donna di Dillinger è morto, come la virilità del protagonista dev'Ultima donna. Io non ho visto girare la parte di distruzione e di morte. Quello che ho visto però è un piccolo privilegio. Perché Marco Ferreri ha girato in una New York vera che però non esiste, e ha filmato cose che non ci sono e però sono lì, da toccare, e non le ha inventate nessuno. Devo spiegarmi. C'è una spiaggia profonda, diciamo, un chilometro, davanti a Wall Street, una spiaggia come a Fregene (più larga), come a Tor San Lorenzo. Ma questa spiaggia è attaccata alla Morgan Trust Bank, al « Wall Street Journal » e ai due immensi grattacieli del « World Trade Center ». Questa spiaggia non esiste. Voglio dire che non esisterà più, dopo il film. Ma è vera, e non l'ha fabbricata Ferreri (costerebbe miliardi). Il film dunque mostrerà qualcosa che prima non c'era e sta per scomparire per sempre. Come la casetta di mattoni rossi, circondata da un piccolo orto di pomodori, proprio ai piedi del più grande grattacielo del mondo. La casa di Luigi-Mastroianni, uno dei protagonisti del film. Anche quella casa è vera, non l'ha costruita Ferreri. E certamente verrà abbattuta in uno o due giorni. Ma questa — di usare spazi artificiali che prima non c'erano e che non ci saranno mai più nel futuro — è l'abile trovata di un regista che ha occhio. Ferreri infatti, con l'aria di andare in giro svagato e distratto, si è accorto del punto in cui stanno allargando il terreno dell'isola di Manhattan perché Manhattan non basta più. In quel punto, proprio attorno a Wall Street, nella zona chiamata « Battery », sta per sorgere (costruita sul cemento e la sabbia gettati sull'acqua) una « garden city », cioè altri grattacielidormitorio per una città che scoppia. Intanto però c'è una allucinante distesa di sabbia intorno ai grattacieli dei grandi affari e delle celebri strade che hanno ispirato le invettive di Brecht (« il vento passerà tra i vostri scheletri arrugginiti ») e le tristi canzoni di Garcia Lorca. Accanto alla distesa di sabbia c'è un'autostrada fantasma (è crollata in parte, lo scorso inverno, e adesso è chiusa in attesa di un piano generale di costruzioni). E accanto all'autostrada fantasma c'è la casetta di mattoni rossi con l'orto di pomodori, proprio ai piedi dei grandi canyon di cemento e ricchezza. Prima che il cemento copra come una lava questo spettacolo, Ferreri, saltellando in silenzio nei suoi « desert boots » è andato a piazzare la macchina da presa, Marcello Mastroianni, Gerard Depardieu, la piccola scimmia e la carcassa dell'immenso scimmione nero (sulla sabbia bianca) che sarebbe il King Kong abbandonato (infinitamente più bello di quello di De Laurentiis), con le zampone aperte per una ventina di metri, un muso immenso e implorante davanti al mare. Mentre la piccola troupe italo-francese-americana gira quasi in silenzio, seguendo le mosse veloci e i piccoli segni del suo regista, si sentono violente frenate e qualche tamponamento nella strada che corre tra i grattacieli e la sabbia. Sono i camionisti che vengono da Brooklyn e premono stravolti il piede sul pedale del freno appena vedono la sagoma nera dello scimmione morto. Nei mare di sabbia gli uomini di Ferreri sono puntini. E poi sono spesso nascosti da piccole dune. Ferreri poi lo fa apposta, si appiattisce, fa stare tutti fermi. E dall'autostrada molti credono di essere matti e con la radio di bordo fanno venire la polizia. Così ogni tanto si sente anche una sirena, e per questo c'è sempre, davanti alla rete che divide strada e sabbia, una guardia paziente. Gioco misterioso La guardia non tenta mai di spiegare. Guarda la scimmia, guarda la gente che sta per fare domande, e con la mano fa cenno di star zitti e di andare. La scimmia morta resterà uno spettacolo senza spiegazione, nella fantasia di molti newyorkesi che sono caduti per caso nella rete di Marco Ferreri. Il gioco, quando sarà storia e sarà film, apparirà — credo — molto più complicato. Depardieu è l'uomo che diventa padre della piccola scimmia, Mastroianni, dolce, vecchio, e confuso, è l'italo-americano che non si è mai staccato dai suoi sentimenti e dai suoi pomodori, la signora Toland è Geraldine Fitzgerald, gran personaggio dì Broadway e la storia... Ma come raccontare una simile storia? Il cielo di New York in settembre è trasparente fino alla finzione iperrealista, le pareti dei grattacieli sono di un grigio ottuso e più minaccioso delle montagne, la sabbia è uno spazio che dice da sé di essere incredibile come una fiaba. Ma la fiaba è tragica. Depardieu ha la vitalità allegroni dell'uomo che si è buttato via dalle spalle identità e responsabilità. Ma lo prende a tradimento un sentimento d'amore. Mastroianni è un uomo perduto e senza radici, gli manca persino il fiato, e la sua unica vendetta rimane donare quel poco che ha, e fare al destino lo scherzo di anticipare la morte, senza disperazione, tanto per avere l'ultima parola in una vita senza parole. Poi ci sono le donne, inaccessibili e belle, avvolte nella loro rivoluzione, e un « museo » che è il luogo in cui si conserva ciò che si definisce « storico », « importante », « culturale », « civile ». E finirà in un incendio. Ecco, questo è l'autore, questa è la città, questi sono i personaggi del film che sta facendo in America Marco Ferreri, dopo L'ultima donna. Sono sicuro di non avervi anticipato niente perché quel che Ferreri mi dice non è che lo spunto iniziale del mistero che sta dipanando con se stesso. Il paesaggio è splendido (è tenera persino la pioggia in quei giorni di fine settembre), la scimmietta si addormenta nel pullover di Depardieu, con una zampina fra le mani di Mastroianni. Tutto è tenero, commovente. Prima della morte. Per queste ragioni credo che Ferreri e l'America stranamente si capiranno. Li legherà il filo della bellezza, della vitulità, dell'attesa che si rovescia in disperazione, dell'indifferenza che diventa Pietà, cioè il tessuto di questo mondo con la grande spiaggia, i grattacieli altissimi e la casetia dì mattoni rossi. „ . „ , « Furio Colombo 1 ^^^^^^^ ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ New York. Mastroianni, Depardieu e il regista Ferreri durante le riprese del film