Il segreto di Longanesi

Il segreto di Longanesi RICORDO L'AMICO E LO SCRITTORE Il segreto di Longanesi Ora che finalmente avevo ritrovato, vivo e vegeto, il carissimo doctor Souza, farmacista in un villaggio dell'alta Val di Magra, sapevo che per vederlo mi bastava andare a Sarzana il giovedì, giorno di mercato, e passare al Caffè verso le undici della mattina. Così ho fatto, cominciando la settimana scorsa. I quotidiani — domenica il Corriere, martedì il Giornale, mercoledì la Repubblica — avevano commentato ampiamente il ventesimo anniversario della precoce scomparsa di Leo Longanesi e arrivando in piazza Matteotti, quando ho visto, sulla cantonata di via Mazzini, al di sopra dei tendoni delle bancarelle, quell'insegna che conoscevo da poterla disegnare a memoria, mi è venuto spontaneo di dirmi ciò che non mi ero mai detto: come sarebbe piaciuto a Leo il nome, Caffè Costituzionale, e l'insegna stessa, ricurva, nera, con la scritta in oro! Ahimè, in primavera l'interno era stato rimodernato. Chiuso il Caffè da febbraio a maggio, il disappunto che avevo provato entrandoci per la prima volta dopo i lavori, adesso mi accorgo che è cresciuto, adesso sento che è diventato un'indignazione: la stessa che Longanesi, al posto mio, non avrebbe mancato di manifestare violentemente, pubblicamente, subito! «Ma come? E i bei tavolinetti di noce, col panno verde al centro, cosa ne avete fatto? E quelli con la scacchiera intarsiata, che erano così carini? E la scaletta cigolante, di legno scolpito, che portava al soppalco per i giocatori? E le cabine telefoniche, imbottite di velluto bordò?». Longanesi se la sarebbe presa subito col cattivo gusto dei comunisti, ossia dell'attuale classe dirigente sarzanese e dell'amministrazione comunale: «Anche qui come in tutta Italia!» avrebbe urlato: «I comunisti imitano i nuovi borghesi e i nuovi capitalisti! Non c'è più nessuna speranza, se perfino a Sarzana, vecchia cittadina defilata, sfuggita al turismo, e rimasta intatta, vecchia cittadina con le sue grosse mura e i suoi torrioni genovesi, succedono queste cose! E pensare che qui davanti, dall'altra parte della strada, c'è un'antica merceria, la Merceria dell'editore Marco Càrpena, modesta, tranquilla, stupenda, il tempio dell'ordine e dell'avarizia, il monumento della vera eleganza, una merceria che è l'ultima fortezza del decoro nazionale!». E io, pronto, pur dichiarandomi d'accordo con lui per la vecchia Merceria e per il nuovo Caffè, gli avrei detto che sbagliava, sbagliava di grosso a generalizzare: che prima di tutto non era affatto provato che fossero stati proprio i comunisti a dettare legge anche in questo; che l'amministrazione comunale di Sarzana era certamente una delle migliori d'Italia; che conoscevo da anni i comunisti locali, che molti di loro sarebbe stato lui il primo a trovarli simpaticissimi... Mi avrebbe interrotto, non mi avrebbe lasciato continuare, mi avrebbe schernito, insultato: «Ipocrita! opportunista! gesuita! hai paura dei comunisti, ecco perché parli così!» e finalmente, nella foga, gesticolando, avrebbe rovesciato il caffè dal banco, avrebbe di furia pagato la tazzina rotta e le due consumazioni, sarebbe uscito correndo, col cappelluccio sulla nuca, si sarebbe allontanato sulla piazza, perdendosi tra la folla del mercato. E io lo avrei inseguito, lo avrei cercato, lo avrei trovato solo un quarto d'ora dopo, sorprendendolo davanti a una bancarella di Caccia e Pesca, con in mano uno splendido temperino svedese, di acciaio inossidabile, che un momento prima aveva comprato per me. Me lo regalava sorridendomi dolcemente e fissandomi con l'intensa malinconia dei suoi grandi occhi nocciola chiaro, che bastavano a contraddire tutte le parole che p èva avermi detto. Contraddizioni La contraddizione. Moravia conclude così il suo articolo su Longanesi: «Egli era stato sempre contro tutto e contro tutti. Adesso vorrei aggiungere che per motivi inestrica bilmente storici egli fu anche, e forse soprattutto, contro se stesso». E Montanelli, che ebbe con Leo lunga frequentazione: «Non si curava di sanare le proprie contraddizioni. Forse non si accorgeva nemmeno di averne». Fondamentale e sintomatico, a questo proposito, era l'uso che Longanesi faceva della definizione «borghese». II borghese era da lui ora adorato e ora aborrito, e Lon¬ ganesi passava dall'uno all'altro sentimento verso il borghese con una rapidità che irritava tutti, esasperando i suoi avversari e sconvolgendo i suoi amici. E' vero che nel libretto intitolato «Ci salveranno le vecchie zie?» Longanesi spiega molto chiaramente che non si tratta di una contraddizione: quando adora il borghese, Longanesi precisa di riferirsi al vecchio borghese ottocentesco, custode della tradizione, incrollabile difensore dell'ordine, della buona educazione, del buon gusto, della parola data, dei bilanci che quadrano, della modestia, della riservatezza, etc. — e quando invece aborre il borghese, Longanesi precisa di riferirsi al nuovo borghese, che in tutte le sue manifestazioni è l'esatto contrario del vecchio borghese. Le due borghesie Il nuovo borghese, secondo Longanesi, entrò in scena col primo dopoguerra, si formò col fascismo, e col secondo dopoguerra trionfò. Si trattasse di un vecchio borghese gradatamente corrotto dal consumismo anche fino a diventare un grosso capitalista, oppure si trattasse di un proletario fulmineamente arricchito, era annunciato e denunciato, nell'uno o nell'altro caso, dal cattivo gusto. Ma questa distinzione, così semplice e chiara, tra il vecchio e il nuovo borghese, Longanesi non aveva la pazienza di tenerla sempre presente. Ricordarla gli sembrava, forse, una pedanteria? O piuttosto si divertiva a dimenticarla di proposito, per fare impazzire gli amici? Ma certo! Si divertiva a confondere le carte, e a scoprire malignamente, nei vecchi borghesi, il germe o il verme dei nuovi: a demolire i vecchi borghesi uno dopo l'altro, quasi che la loro immagine, dopo tutto, fosse solo una nostalgia, una fantasia, una sua ironica invenzione — e la realtà italiana, intanto, solo un progressivo, inarrestabile sfacelo. E' vero: a volte Longanesi salvava decisamente da questo sfacelo i piccoli borghesi, le vecchie zie, e altre volte, addirittura, recuperava il proletariato rimasto genuino, forte, simpatico: lo recuperava con pagine che potevano portare la firma del più ortodosso e accanito comunista. Ma non si sforzava mai di operare, tra ciò che salvava e ciò che condannava nel nostro paese, una sintesi meno triste. Era come votato a una negazione continua e spietata. E può darsi, come sembrò suggerire Elena Croce in un memorabile saggio sul costume delle élites italiane pubblicato in «Elsinore», può darsi che proprio questa negazione strenua distinguesse e nobilitasse Longanesi come solitario rappresentasse chez tious di uno stile che altrimenti non esiste: qualunque affermazione sarebbe sembrata a Longanesi un segno di retorica, mollezza, volgarità, ipocrisia. Quel povero immigrato na¬ poletano che lui raccontava di avere incontrato in tram, a Milano, in una mattina nebbiosa, e di avere allora ammirato come un autentico aristocratico, e di averlo ritrovato alcuni anni dopo integrato nella grande industria col grado di dirigente, ricco, involgarito, perduto per sempre, quell'ex-operaio napoletano è davvero, per Longanesi, l'immagine definitivamente goffa dell'italiano di oggi. Ma, secondo me, Longanesi avrebbe potuto dire, sull'Italia, qualcosa di diverso, di meglio, di peggio, di più: qualcosa che forse restava un segreto per lui stesso. Mi sono sempre riconciliato con lui, o presto o tardi, e sono sempre tornato a litigare. Un caso fortunato ha voluto che non fossimo mai andati così d'accordo come l'ultima volta che ci siamo visti. Lunghe ore assieme, noi due soli, a cena e dopo cena, in Galleria, alla terrasse del Savini. Era la notte del 27 settembre 1957, poche ore prima della sua morte improvvisa. Ho raccontato altre volte, in un libro di diari e in una novella, quella notte. Potrei soltanto ripetermi. Ma continuo a chiedermi adesso, e a chiedermelo senza capire fino in fondo, quali fossero i motivi dei nostri litigi... Nascevano, lo so, dalle sue semplificazioni per amore di polemica. Per esempio. Non ammettevo che lui non esitasse a accomunare nella condanna Einaudi il Presidente con Einaudi l'editore: qualunque fosse la sua opinione sul figlio, opinione che io non condividevo, Longanesi avrebbe dovuto ammirare il padre, perché il padre Einaudi era il modello stesso e, anzi, un insuperabile vivo esempio di quel vecchio borghese che Longanesi vagheggiava. Basterebbe, come prova, l'episodio della pera che racconta Flaiano. Cena al Quirinale. Si è alle frutta. Einaudi improvvisamente indica una meravigliosa passacrassane che gli è stata servita e, nel silenzio generale, dice: «Questa pera deve essere molto buona. Ma è troppo grossa. Mi rincresce di non poterla mangiare tutta. C'è qualcuno che vorrebbe fare a metà con me?». Prontissimo è solo Flaiano. Alza una mano: «Io, signor Presidente». Lento e solenne, un maggiordomo reca a Flaiano su un piatto, e gli posa davanti gravemente, come se fosse la testa di San Giovanni, la mezza pera. Del puro Longanesi, no? Un altro litigio. Longanesi va a vedere Le luci della ribalta e ha parole terribili per il vecchio Chaplin: «Era l'anima di un uomo di sinistra che gemeva; l'anima di un miliardario, miliardario come Brusadelli, come Marzotto, e l'anima dei ricchi geme a sinistra». Neanche a me era piaciuto Le luci della ribalta. Ma come si fa, in ogni caso, a non perdonare Chaplin anche se è diventato miliardario? Non c'era in lui almeno una fedeltà, sebbene corrotta da in¬ negabile ipocrisia, ai suoi antichi ideali? Longanesi era feroce contro qualunque sfumatura di ipocrisia. Non perdonava l'ipocrisia. Purtroppo, come per un assurdo compenso, perdonava troppo spesso e troppo volentieri la violenza, a cominciare da quella fisica. Anzi, non la perdonava nemmeno: la rispettava, la ammirava, la amava! Tutti quelli che lo hanno frequentato sanno il suo estremo, assoluto, forsennato, romantico penchant per le donne. Ebbene, Longanesi non perdeva mai l'occasione per sostenere che, le donne, bisogna picchiarle. Mi faceva imbestialire. Non capivo, mi sembrava mostruoso, ancora non so darmene una ragione: come mai una persona di intelletto così acuto e allo stesso tempo di animo così delicato non aveva difese contro il fascino della violenza? E se è chiaro che la violenza è il contrario dell'ipocrisia, viene addirittura il sospetto che il suo odio per l'ipocrisia fosse soltanto una conseguenza del suo amore per la violenza. Ma perché questo amore infernale? Forse ha ragione Moravia quando parla di un misterioso trauma politico che Leo doveva avere subito nella sua adolescenza: allorché, da Bologna, cresciuto in un ambiente di tradizione patriottica, risorgimentale e socialista, arrivò a Roma «ormai deluso e disincantato» per sempre, e per sempre disegnato con le sue principali linee, caratteristiche, inconfondibili, che erano «l'incapacità di essere non già un fascista deluso, ma un antifascista magari illuso» e anche quel «conservatorismo sfiduciato e violento che gli .aveva fatto rigettare per sempre i grandi sentimenti che pur ci sono e che mandano avanti il mondo». Senso tragico Probabilmente Moravia ha intuito la verità, nessuno è andato più vicino di lui al segreto di Longanesi. Trovo perciò insufficiente l'interpretazione simpatica e idillica, anche se per molti versi esatta, che di Longanesi danno Montanelli, Biagi, e molti altri. Ma trovo ancora meno sufficiente, anche se egualmente idillica, l'interpretazione antipatica che ne dà, per esempio, Antonio Gambino nella Repubblica quando dice che l'ampiezza con cui si è commemorato oggi il ventesimo anniversario della sua scomparsa è il nefasto segno di un certo immobilismo italiano. Non c'è dubbio: il vero Longanesi è rimasto un segreto per quasi tutti. Ma intanto Moravia ci ha detto qualcosa di nuovo. E i brevi libri di Leo, i testi del suo elegante umorismo, a rileggerli attentamente, ci appaiono attraversati da illuminazioni livide e disperate, dalla nostalgia della vera grandezza, e soprattutto da quel senso tragico che il Gambino si ostina a negargli. Il segreto di Longanesi non può essere che tragico. Mario Soldati

Luoghi citati: Amico, Bologna, Italia, Milano, Roma, Sarzana