Quale arte sacra

Quale arte sacra LA PORTA DI SAN PIETRO Quale arte sacra In un lontano articolo del 1952 su Paragone, Francesco Arcangeli affrontava, con il suo consueto impegno e fermezza e lucidità di principi sull'arte contemporanea, il tema dell'arte sacra oggi, e del doppio condizionamento imposto dalla « tradizione » e dalle richieste di « decoro » delle autorità ecclesiastiche, anche dalle più aperte e desiderose di riallacciare un discorso degradato oltre ogni limite dalle autentiche nefandezze della cosiddetta « art sacre » del secondo '800. Egli scriveva fra l'altro: « ...la scultura, più tardamente agganciatasi alle avanguardie del nostro secolo, ha conservato, anche per ragioni di commissioni più frequenti (cemeteriali, persino), certi appannaggi di perizia esecutiva che le permettono di richiamarsi più agevolmente alle grandi epoche dell'arte sacra: guide sicure, se non per il nascere di una nuova arte, almeno per dignitose rievocazioni tematiche ». E concludeva, con una di quelle meditazioni, altrettanto logiche quanto esistenziali, sue tipiche: « Ma sarà colpa soltanto di malignità dei tempi, di pochezza degli animi e delle menti, se una profonda espressione sacra non è ancor nata, modernamente, in arte figurativa?... Gli artisti, soprattutto se forti e sinceri, sono, naturalmente, uomini veri e moderni; e non parrà ad essi, mentre dovrebbero produrne di nuove, che il culto che ha per tramite le immagini sacre si leghi ormai, invincibilmente, ad altre e non più restituibili epoche? Chi sente ancora il bisogno della preghiera, o preferirà farlo davanti alle immagini antiche, ormai convalidate da una lunga dimestichezza; o più spesso si inchinerà davanti a immagini nascoste, che dimorano nella solitudine più interna del cuore ». Oggi, dopo venticinque anni, la Chiesa postconciliare ed ecumenica è certo meglio atta a comprendere parole e concetti come questi, espressi da un «laico» marxista di profondi e appassionati sentimenti, che vedeva lontano. Ma è certo, d'altronde, che anche oggi la struttura mondana della Chiesa cattolica (e tanto più nel suo centro della sede romana) né vuole né probabilmente può rinunciare d'un colpo ad una secolare tradizione di eloquenza, di appello retorico al sensibile, al tangibile. Con le sue leggi, con i suoi limiti, dilatabili anche generosamente (donde le variabili di una « politica artistica » .'ccLsiale, i suoi ritmi, a tempi lunghi e brevi) ma non valicabili. Arcangeli, in quel 1952, certo ben conosceva le coeve vicende della Quinta Porta dei Fasti del Duomo di Milano, con il prevalere del modello «neorealista» di Minguzzi sulla scatenata fantasia luministica « spaziale» di Lucio Fontana. In quel modello, di aspra figuratività, poi non poco « addolcita » nel portale inaugurato nel gennaio 1965, Minguzzi già sapeva superare le strettoie del minuzioso programna dettato dal Cardinale Schuster, ricorrendo all'arma ben maneggiata della « cultura », e richiamandosi intelligentemente sia all'unico modello italiano, ma di livello internazionale, di genuina, generosa, travagliata retorica del contemporaneo, l'amato Arturo Martini, sia al cromatismo espressivo, alle deformazioni bidimensionali, drammatiche ed esistenziali di « Corrente », soprattutto di Sassu. Da allora, all'oggi della Quinta Porta di S. Pietro, inaugurata da Paolo VI per i suoi 80 anni, c'è stata, ritengo, una tappa fondamentale, umana quanto formale, per Minguzzi: il terzo premio al concorso internazionale per il I monumento al prigioniero politico ignoto, a Londra nel 1953, che ha significato anche contatto diretto con la più avanzata formulazione dell'espressionismo scultoreo internazionale, nell'ancor fresca memoria-denuncia della bestialità nazista. Butler, Chadwick, Armitage. Lo svincolo dalla specificità di quei modelli (che molto contarono anche per Agenore Fabbri), l'ulteriore recupero di oggettualità e di « ambiente » — un ambiente feroce, cella di tortura e camera a gas, ben altra cosa dall'«environment» pop, pur in estrinseca tangenza di tempi e di cultura —, recano però nel profondo di sé la memoria di quella tappa, di quell'incontro con la storia. Gli Uomini del Lager, ripetuti nel 1065-70; i Fiori chiari e i Fiori oscuri, 1969-70. Nella parte finale dell'antologica milanese del '73. alla Rotonda della Besana, accanto a queste ultime opere, compaiono i primi modelli della porta di S. Pietro, dell'anno prima. E qui scatta il limite (limite oggettivo, storico-tradizionale, ma che comunque non può non condizionare la soggettività dell'autore, e dunque il suo risultato finale) individuato da Arcangeli. Opera di grande validità espressiva, è indubbio, e di eccezionale incisività tecnico-materica; ritmicamente liberissima da condizionamenti di tradizione; impegnativamente significante, anche la nuova volontà ecclesiale di coinvolgimento nel Be-. ne e nel Alale del mondo. Mi sembra, approvando, di intravedervi anche una risposta esistenziale e drammatica all'accademismo del contemporaneo della Porta della Morte di Manzù. Ma, detto questo, a paragone con la diretta comunicazione emozionale, con la « figuratività » senza scampo ma anche, conseguentemente, senza spazii di ridondanza, degli Uomini del Lager, nella Quinta Porta di S. Pietro la soglia della retorica è varcata, ed è tangibile la ridondanza « culturale » di « storia dell'espressionismo », fra i termini estremi di Griinewald e della Crocifissione di Guttuso, con in più la riproposta arcaizzante del protoromanico. L'apertura culturale della Chiesa ha certo fatto grandi passi, ma, pur ammettendo lo specifico grande passo — interno di Minguzzi ed esterne dell'alta committenza cattolica — fra la porta milanese e la porta romana, quella scelta del 1951 fra Minguzzi e la vera « contemporaneità » di Fontana non è, di fondo, mutata. Marco Rosei Un particolare della "quinta porta" modellata ed eseguita dal Minguzzi per S. Pietro

Luoghi citati: Londra