Gli intellettuali lasciano i laburisti di Mario Ciriello

Gli intellettuali lasciano i laburisti CONTRO CALLAGHAN E LA NUOVA SPINTA A SINISTRA Gli intellettuali lasciano i laburisti Speravano che il partito tornasse al socialismo moderato e riformista - Ora sono convinti che, dopo i compromessi con i sindacati, sia sulla strada del corporativismo - Alcuni passano tra i conservatori, ma i più voltano le spalle alla politica (Dal nostro corrispondente) Londra, ottobre. E cosa dicono gli intellettuali inglesi? Quale posizione hanno assunto nei confronti dell'eurocomunismo? Quale contributo danno ai dibattiti in Francia, in Italia e in Germania sul marxismo? Quali sono le voci più ascoltate? Una volta di più queste domande bussano alla porta di chi vive a Londra, ma una volta di più non trovano né chiara né esauriente risposta. Riaprono invece il vecchio e difficile discorso su quella Manica non soltanto geografica che separa i due mondi della cultura: il britannico dal continentale. Una Manica che si è fatta più larga negli ultimi tempi, che mostra come certe radici spirituali e certe tradizioni intellettuali siano più forti delle influenze esterne, anche se disseminate dalle nuove tecnologie del sapere. A riaccendere la curiosità degli italiani, dei francesi e dei tedeschi è stato il «caso Johnson». Paul Johnson, 48 anni, direttore dal '65 al '70 del New Statesman, l'intelligente settimanale socialista, autore di diversi libri, tra i quali una biografia di Elisabetta I, e, lo scorso anno, di una splendida Storia del Cristianesimo, si è dimesso dal Partito laborista. In un articolo di quattromila parole, intitolato «Addio al Labour Party», articolo pubblicato dal New Statesman, s'è avventato contro quasi tutta la politica del governo Callaghan e le nuove tendenze socialiste. Era da ventiquattro anni nel partito, ne fu una delle menti più brillanti. E' stato un «addio» a tutta una vita. Altri laboristi di chiara fama, intimoriti o scoraggiati da quella che considerano una deleteria involuzione, hanno allentato i legami con il partito, anche senza dimissioni. Se ne sono tacitamente scostati. Sono uomini come Lord Shancross, Geor- ge Brown, Woodrow Wyatt, Dick Taverne, David Marquand, Brian Walden e lo storico Hugh Thomas. Roy Jenkins ha posto fra sé e il partito la Manica. Sono, per lo più, uomini che nel resto d'Europa, dove questo termine ha sempre goduto di maggior prestigio, potrebbero meritatamente fregiarsi del titolo di intellettuali. Cos'hanno in comune? Se interrogati, parlano vagamente di disenchantement: una parola che, con il suo melodico suono, cela delusioni più profonde. Speravano che il Labour Party tornasse sulla strada post-bellica, la strada del socialismo moderato, del riformismo, e sono convinti invece che, dopo tutti i compromessi con la sinistra e ancor più con i sindacati, la strada sia ormai quella del collettivismo, del corporativismo, o più genericamente dell'anti-individualismo. Temono che il tradizionale appoggio dei sindacati al partito sia già degenerato in un pericoloso, incestuoso connubio. Ricordiamo le parole del grande leader laborista Aneurin Bevan: «Non bisogna mai confondere socialismo con tradeunionismo». Johnson, che della politica ha una visione etica quasi religiosa (e che, da vero apostata, respinge persino i liberali, «opportunisti disposti a tutto pur di restare al potere», e voterà forse per l'altra chiesa, il Tory Party), non parla di disenchantement, preferisce l'invettiva. Il primo choc fu nel '69, quando l'amministrazione Wilson issò bandiera bianca di fronte ai sindacati e rinunciò al progetto di legge per disciplinarne le attività; il secondo gli fu inflitto dal tollerante atteggiamento del governo verso le violenze dei picchettaggi; e il terzo, certo il più grave e comprensibile, del consenso laborista al closed shop, quell'istituto che dal '76 permette ad un imprenditore ed alle Unions di accordarsi per licenziare dall'azienda chiunque non intenda iscriversi ai sindacati. «Dov'è finito il Partito laborista, grida Johnson, che difendeva gli umili, i deboli ed i perseguitati e chi, fosse pure per cocciuto conformismo, si riservava il diritto di decidere per proprio conto?». Ancora Johnson: «Il Partito ha adottato la filosofia collettivistica dei capi sindacali... Le tendenze corporativistiche di Callaghan, Healey e dei loro colleghi appaiono manifeste nella loro preferenza per determinare la politica non in Parlamento ma in colloqui segreti con le Unions e talvolta con i leaders del capitalismo... Il Partito laborista si è privato di ogni nutrimento intellettuale e dello stimolo del dibattito... Era inevitabile che i marxisti colmassero il vuoto intellettuale nel partito: ma, come ha detto Jacques Monod, il marxismo è una caricatura della scienza, perché scevro dell'etica di una scoperta scientifica non meno che di una vera teoria della conoscenza... Una del¬ le più chiare lezioni della storia è che ogni compromesso con la violenza è fatale... Il corporativismo accompagnato dalla violenza è fascismo: fascismo di sinistra, forse fascismo-marxista, se si vuole, ma sempre fascismo». Bastano queste parole per indicare quanto sia diversa l'Inghilterra dal Continente. Qui non si esita ad accusare il Labour Party di tendenze «semi-fasciste», mentre a Sud della Manica molti già scoprono un nuovo afflato democratico nei comunisti. Due pianeti, insomma, su due orbite che raramente si incrociano. A Parigi soltanto quest'anno i «nuovi filosofi» hanno alzato il piccone contro la statua di Marx, mentre questa demolizione era cominciata qui nel 1945. Demolizione certo non finita, e che mai lo sarà, perché non si può distruggere tutto un monumento che occupa un posto tanto vasto nella storia: ma demolizione che è già irrilevante. Questo perché il divorzio degli intellettuali dal comunismo e dal marxismo è acqua passata e si assiste adesso, se non ad un divorzio, ad una separazione dal socialismo nella versione laborista, e in molti casi dalla stessa socialdemocrazia. Intendiamoci: non si può parlare di fenomeno tanto vasto e fluido senza inevitabili generalizzazioni: e sarebbe scorretto non ricordare che esistono ancora sonore voci marxiste, o, come dicono i francesi, «marxisantes». Le più importanti e più numerose sono, senza dubbio, quelle degli storici, di uomini quali Hobsbawn, Christopher Hill, E.P. Thompson e Rodney Hill, l'illustre medievalista. Altre voci giungono dal teatro, quelle della « sinistra brechtiana », ma non toccano che un pubblico limitato, non hanno molta influenza. E autori come Wesker e Osborne hanno cambiato strada da tempo, quest'ultimo con intermittenti accessi sciovinistici. Robusta è infine la presenza marxista tra gli insegnanti, a tutti i livelli. Anche se in misura minore che in Italia, i corsi di sociologia, di filosofia, di storia sono talvolta veicoli di dottrina marxista. Mn. dove si dirige l'intel- lettuale che abbandona gli ancoraggi della sinistra? Certo, taluni si spostano verso il centro o anche verso destra, ed è crescente il numero di coloro che considerano giunto il momento di dare briglia più sciolta agli imprenditori (Johnson afferma: « La storia insegna che non ci può essere libertà politica senza libertà economica»), di incoraggiare l'iniziativa individuale, di ripristinare un certo elitismo nella pubblica istruzione. Ma i più voltano le spalle alla politica. Il panorama riacquista così la sua tradizionale fisionomia inglese, che, con tutte le sue splendide eccezioni, non è molto diversa da quella auspicata da Julien Benda per la Francia nella Trahison des clercs. L'intellettuale — scriveva Benda nel 1927 — non deve inserirsi nella lotta politica quotidiana perché, vittima di passioni, compromette altrimenti i suoi ideali, il suo prestigio, il suo distacco. Il nome stesso intellectual è entrato nell'uso corrente da meno di un secolo, ed è stato visto sempre con sospetto. George Orwell odiava gli intellettuali (« Non è che amino il proletariato: hanno piuttosto un ipertrofico senso dell'ordine»;, una avversione espressa due secoli prima da Jonathan Swift. Parlo con il vicedirettore del Times Literary Supplement, John Sturrock: «Gli scrittori inglesi hanno ben poco a che fare oggi con la politica. Qui non è come sul continente. La gente non è ansiosa di conoscere le idee politiche altrui, neppure quelle degli scrittori. Se un gruppo di questi intellettuali diffondesse un proprio manifesto, tutti si metterebbero a ridere. Direi anzi che qualsiasi scrittore troppo ideologico corre il rischio di non essere preso sul serio, di cadere nel ridicolo ». « Tenga anche presente, continua Sturrock, che il marxismo è stata una grande delusione, e che sono cambiate le circostanze che permisero a uomini come Shaw, Orwell o Dickens di esercitare una profonda influenza. Chi influenzarono infatti? Soprattutto coloro che non erano andati all'università, i giovani che avevano studiato in condizioni difficili, gli autodidatti. Oggi, invece si va all'università, ma l'interesse per le idee viene al secondo posto dopo le prospettive di lavoro e di guadagno ». Allo scrittore si chiede di fare lo scrittore: di creare con la sua fantasia quella « commedia umana » alla quale altri potranno eventualmente attingere per una ispirazione politica. Sturrock aggiunge: « Con le sue descrizioni della miseria, degli slums, Dickens influenzò senza dubbio la legislazione sociale. Ma oggi questi autori sono stati sostituiti dai sociologi, dai giornalisti e dalla televisione che in Inghilterra è eccellente, forse la migliore del mondo ». In questo clima il « colore » politico di uno scrittore perde quasi ogni significato. Nessuno conosce ad esempio le idee di Graham Greene (un socialdemocratico forse) e a nessuno interessa conoscerle. Anthony Burgess è politicamente indefinibile. Di Angus Wilson si può dire soltanto che è un orwelliano. Di tre autori si ha una definizione abbastanza chiara: Evelyn Waugh, Anthony Powell e Kingsley Amis sono tutti « high tory ». Con una visione super conservatrice, quasi reazionaria, della società. Ma ciò non ha mai offuscato né loro qualità né il loro prestigio. In questa epoca in cui la « immagine » adombra spesso la sostanza, l'Inghilterra è ancora uno dei pochi paesi in cui un libro è più importante del suo autore. Un giovane romanziere mi dice: « Nei secoli passati, quando non esistevano radio, televisione e giornali, era l'opera che contava. Oggi, si parla più di Sartre e di Malraux che dei loro testi ». Insomma, la vera arte parla da sola, e da sola apre un solco fecondo. Lo scrisse Dylan Thomas, nel '60: « Una buona poesia è un contributo alla realtà, cambia il mondo, e ci permette di conoscere meglio ciò che è in noi e tutto ciò che ci circonda ». Mario Ciriello Brighton. Il primo ministro James Callaghan, ieri, a un incontro con i sindacati (Upi)