Macario due volte parigino di Erminio Macario

Macario due volte parigino APRE CON MOLIÈRE LA SUA STAGIONE TORINESE Macario due volte parigino Ha costruito in Torino un teatro-salotto da far invidia a Parigi - Per l'inaugurazione ha scelto di affrontare, a modo suo, "Sganarello medico per forza": ripercorre a rovescio l'itinerario dei comici dell'arte « Il colore è ciclamino. Anzi, se ti avvicini e la guardi bene, la moquette ti mostrerà sfumature come la schiuma del vino Freisa. E le poltrone sembrano prugne, con quel gioco di brina, quella patina di nebbia... ». Erminio Macario si aggira per il suo teatro di via Santa Teresa con golosità giovanile. Apre le porte delle toilettes, preme sui pulsanti della luce, molleggia lungo i gradini delle scale, tamburella con le nocche sulle bacheche che conterranno alcune sue gigantografie, dal '27 al '77. Sospira, modifica impercettibilmente quel suo volto rotondo, impavido e innocente e astuto, costruito di creme, latte, ciprie e fa: « Nel Quaranta a Torino c'erano dieci teatri, oggi ve ne sono tre. Ma sì, mi sono tolto questa soddisfazione, la città ed io ce la meritavamo, no? Ancora oggi, se esco per strada, la gente mi tocca e sussurra: meno male che c'è rimasto lei, commendatore. Sai che volevano darmi un teatro a Milano? Senza nessun rischio. E anche Milano è sempre stata una mia "piazza". Ma ho risposto: se mi fermo mi fermo a casa mia. Cioè qui, a Torino ». Tra pochi giorni aprirà dunque questo nuovo teatro, stupendo per linee, acustica, comodità: mi ricorda il «Daunou» di Parigi, ma più moderno, più funzionale, con un gusto del soffice che già fa allegria. I pochi che l'hanno visto dicono: è una bomboniera, è un bouquet. Ma non è stato un bouquet senza spine; anzi: infinite traversie, due anni di lavoro, sprechi autentici di intelligenza per reagire agli inciampi, alle incomprensioni, alle lungaggini burocratiche, a certa ottusità municipale. Però Erminio Macario sa lottare, sa intestardirsi, soprattutto quando ha ragione. E debutterà con Molière, un'altra scommessa. «Del resto Molière era figlio d'un tappezziere, saccheggiava genialmente i copioni dei comici dell'arte, e il mio Garibuja monferrino, valicate le Alpi Per recitare nei cortili e nelle corti savoiarde, entrerà legittimamente nei panni di Sganarello, la maschera molieriana, e sarà medico per forza », si spiega in fretta Macario con quel suo parlare tutto scatti, domandine, risposte, ammicchii. Non ha mai provato così a lungo, non ha mai preteso un ritmo così appuntito e sciotto dalla compagnia, quasi tutti giovani più naturalmente Carlo Rizzo, da mezzo secolo « spalla » ideale dell'attore piemontese e ancora lì, inferocito con un randello sul palcoscenico. Provano, loro due che si conoscono da una vita intera, e su certe velocissime battute a base di « chi lo sa » « come sta » « chi va là », quasi giocano a impuntarsi, rifare, ripetere, ripigliar dall'inizio: il ritmo è tutto, appunto. E i due, con centoquarantacinque anni accumulati in coppia, sanno benìssimo che per risultare irresistibili ogni sillaba, ogni gesto vanno misurati e studiati e corretti con infinito mestiere, infinita pazienza. Diranno, mi sembra già di leggere: è un Molière di Macario, sopraffatto, stravolto, tradito, condizionato da Macario. Mi sento di dover rispondere: e che importa? L'attore è fedele ad una sua interpretazione eterna. Il far ridere, ricreare, offrire motti e lazzi e trovate costituiscono un suo « credo » saldissimo. La sua pretesa è di infilare un fiorellino campagnolo con qualche tono surreale all'occhiello della nostra quotidianità, vestito bisunto e che mostra tutte le sue toppe. Troppe volte la pretesa culturale ha affossato il teatro, che solo i guitti di vero genio riescono ancora a «trasmettere». Troppe volte si è speso fiato inutile per un Amleto in tuta da meccanico (ma intellettualizzato) o per una congerie di borborigmi scenici. L'attore d'oggi, a parte le sparate per ingraziarsi la critica, non sa più se deve mettere il costume o restar nudo, se declamare o « porgere » alla Brecht, se ribellarsi alle parolacce o fingere giochi erotici, se chiudersi in un bidone della spazzatura non solo beckettiano o riparare tra i marmi di Pirandello. Macario invece sa quel che dà, perché lo dà. Pretendere che faccia Molière secondo i canoni suonerebbe ai suoi (ma anche ai nostri) orecchi come un'autentica bestemmia. Ecco dunque bastonate, inganni, il barbaglio d'un seno, ecco corna paesane e di per sé « classiche », ecco gli imbrogli, il Carro di Tespi, l'osterìa, gli equivoci, un turgore plebeo ma educatissimo, con punte di rarefazioni sofistiche. Ecco la maschera piemontese, da tanti amata, che parla monferrino. francese, maccheronico, cita Aristotele e Galeno, storpia il latino, discute di donne incinte, scaraventa agganci continui per la risata. Anche « in prova » Macario è Macario, anzi è quattordici volte Macario, perché ai quattordici uomini e donne della compagnia ripete ogni parte, ogni movimento, giù uno schiaffo su quella manina che sta troppo alta e artificiosa, via quel passo che deve risultare più naturale, non girarti mai da destra a sinistra ma completa il movimento come se fossi a casa tua, sciogliersi, sciogliersi, riprovare, ricomincia dall'inizio, non sillabare ma parla, sciogliersi. Poi. in camerino — due metri con specchio, il lavabo, lindissimi — Macario mi legge una sua lettera. Per chi è? E chi lo sa. risponde lui: è la mia confessione. Me la legge tutta, trabocca di affetti e doveri per la sua città, di propositi, di una qualche amarezza per le lotte sostenute (ma Diego Novelli si tranquillizzi: non è di lui che Macario parla male). E nel suo eloquio febbrile, l'attore aggiunge: « Sai, a me piace recitare anche per chi non è torinese. Proseguendo una tradizione, portando questa tradizione a conoscenza di chi è "solo" ita¬ liano. Lo trascino io a capire, a ridere, con la parola e il gesto legato alla parola. Noi dobbiamo conservare e distribuire, perché tutto non venga dimenticato. E poi >o parlo il torinese autentico: e mi hanno sempre inteso anche a Catania». Naturalmente il «suo» Molière ha un rotolio di variazioni, di soprusi e di astuzie che non rifiutano paragoni anche alti: in un certo senso Macario farà godere i suoi innumerevoli fedeli ma tenta pure un'operazione di « teatro nel teatro ». A modo suo. come sempre. Lui già sì diverte pensando agli applausi, e finge indifferenza all'idea della critica. Torna in palcoscenico, dove tutto è persin troppo nuovo, tranne un secchio con due dita d'acqua, per le cicche. Ripiglia a muoversi tra la moglie della commedia e Carlo Rizzo-Bertuccio, che l'insegue con l'eterno randello. Io sono solo nella conchiglia del teatro, gli attori si muovono in jeans, Macario con un maglione e il cappelluccio, manca la fatata complicità dell'ombra, dei costumi e del pubblico. Di colpo mi sento ridere, trascinato. La commedia finisce con Sganarello che domanda agli spettatori: ma le merito davvero tante bastonate? E la lettera che Macario mi consegna si chiude con questa frase: dopo tutte le tribolazioni digerite per un teatro mio, ancora dovrò prendere botte? L'ammiccamento non è rivolto alla critica — credo — ma a una certa burocrazia, a certe sordità ufficiali e ufficiose. Ad ogni modo, ira pochi giorni Torino avrà un teatro davvero parisien, e avrà di nuovo Macario. Ha ragione il passante che tocca il gomito del « commendatore » sussurrandogli, a scapito d'ogni intimo riserbo: meno male che lei c'è ancora. Giovanni Arpino Torino. Erminio Macario, impresario-regista-attore, parla del suo teatro

Luoghi citati: Catania, Milano, Molière, Parigi, Torino