Con Berlanga e Saura nel cinema di Franco di Sandro Casazza

Con Berlanga e Saura nel cinema di Franco Monografia spagnola alla mostra di Pesaro Con Berlanga e Saura nel cinema di Franco I rapporti tra la dittatura e lo spettacolo - In pericolo l'edizione 1978? (Dal nostro inviato speciale) Pesaro, 18 settembre. Quaranta film per illustrare la Spagna e il suo cinema durante la dittatura franchista, non sono molto. Ma sufficienti, almeno, per leggere lo sviluppo di alcune tensioni critiche al sistema, pur sempre in chiave metaforica e indiretta, e trovare la conferma di alcune personalità d'autore poco note al grande pubblico e forse non adeguatamente valutate, a causa della diffidenza ideologica con la quale per anni sono stati accolti gli scarsi prodotti della cultura spagnola che riuscivano a varcare i confini. Due registi, tra quelli visti alla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, valgono una segnalazione a parte e giustificherebbero uno studio specialistico più approfondito. Sono Luis Garcia Berlanga, 56 anni, nato a Valencia, dieci film girati e uno sketch in 25 anni di attività, e Carlos Saura, 45 anni, di Huesca, undici film in 18 anni. Il primo ha goduto di un momento di popolarità nel '75 per lo scandalo sollevato dalla sua ultima pellicola Grandezza naturale (Life size) con Michel Piccoli, dove racconta gli egoismi e le miserie di un uomo che trova in una bambola gonfiabile la soluzione dei suoi problemi esistenziali e sessuali. Gruppi di femministe romane non colsero la spietata accusa contro una cultura e una mentalità prettamente maschilista e sollevarono intorno al film un polverone tale da ridurlo immeritatamente al livello di sporco prodottino sexy. Quello dì Grandezza naturale è il «secondo Berlanga», con inclinazione al grottesco, al paradosso, all'umorismo «nero», intriso di crudeltà. La svolta fu segnata nel 1963 da El Verdugo, storia acremente satirica della solitudine e dell'isolamento di un giovane aspirante al mestiere di boia. Al principio della sua carriera, come dimostrano i film già visti alla rassegna pesarese, il regista aveva scelto i toni di una sottile critica sociale attraverso i modelli della commedia di ispirazione neorealista. Tra queste opere, non tutte inedite per l'Italia, ricordiamo Quella coppia felice (1951), coregìa di Bardem, Benvenuto Mister Marshall! (1952) e Placido (1961). L'umorismo e l'ironia nascono dal confronto inconciliabile tra personaggi di ambiente proletario e un mondo borghese, reazionario, tradizionalista, gretto e ipocrita. I due giovani, poveri sposi della «ccnrncplns «coppia felice» vincono un concorso bandito da una marca di saponette: per un giorno vedono esauditi tutti i loro desideri. Ma ristoranti e negozi di lusso, con la gente che li frequenta, finiranno per deluderli profondamente, lasciando un amaro sapore sulle loro labbra. Regaleranno tutti i doni ricevuti ad una schiera di barboni addormentati sulle panchine del parco. Stile, temi e sovreccitazione narrativa sono propri del cinema italiano di quegli anni che volgeva dal neorealismo alla «commedia rosa», con qualche responsabilità della poetica zavattiniana. Humour nero In Benvenuto Mister Marshall! protagonista è un intero paesino di provincia. Arrivano gli americani con i loro dollari: si prepara una festa e ognuno sogna nuove ricchezze e fortune. Spera anche il vecchio hidalgo del paese, al quale, secoli addietro, gli indigeni d'America hanno mangiato un paio di antenati e che si ostina a definire i ricconi d'Oltreoceano barbari «indios». Con Placido, Berlanga annuncia già il gusto del grottesco e dell'humour nero che caratterizza le sue ultime opere. La notte di Natale i ricchi borghesi di una città preparano festeggiamenti per i vecchi poveri e li invitano nelle loro case a cenare. Sotto la patina caritatevole si nascondono indifferenza e cru¬ deltà: tutti vogliono liberarsi prima possibile di questo pesante obbligo e quando uno dei vecchietti muore cercano di nasconderlo, perché si teme possa creare fastidiose complicazioni alla famiglia ospite e possa danneggiare la immagine della ditta di pentole che patrocina l'iniziativa. Carlos Saura, personalità del tutto diversa da Berlanga, fin dal debutto cinematografico preferisce, invece, affrontare direttamente i problemi sociali della Spagna. Los golfos (7 ragazzi di vita), del 1959, racconta, con accenti a metà tra Pasolini e i « giovani bruciati » del cinema americano, le vicende di una banda di ladruncoli di periferia, le loro donne, i sogni, le generosità, i drammi. E' un film disperato, senza illusioni: per i « diversi » e gli emarginati non c'è possibilità di riscatto. Anche il «puro» del gruppo che tenta la fortuna nella corrida vedrà le sue speranze infrante contro la forza bruta di un toro che è simbolo insieme del potere e dell'ambiente ostile. Con La caccia (1965) Saura si conferma acuto indagatore e accusatore delle contraddizioni psicosociali che travagliano la Spagna franchista. Tre ex falangisti, in compagnia di un giovane, compiono una battuta di caccia al coniglio nelle zone dove combatterono durante la guerra civile. La ferocia del nuovo massacro di animali indifesi rimanda ad un clima di violenza che il regime fascista continua ad usare come strumento di governo. I tre falangisti, raggiunto il momento della verità, scaricano i loro complessi di colpa irrisolti uccidendosi tra loro. L'ultima inquadratura si blocca sul ragazzo che fugge terrorizzato da questo bagno di sangt:<?. e da questa Spagna che non capisce. La scelta « obbligata » della metafora ideologica come denuncia dei problemi politici del suo paese, sarà sviluppata da Saura in tutta l'opera successiva sia attraverso i toni fantastici della allegoria, come nel Giardino delle delizie (1970), sia preferendo il realismo simbolico delle inquietudini di una generazione che preannuncia un necessario rinnovamento storico come in Cria Cuervos, da poco proiettato anche sugli schermi italiani. Così poteva esprimersi il cinema di Franco: si aspetta ora con interesse e curiosità il nuovo cinema di Spagna. Condizione critica Prima dell'incontro con il regista tedesco Theodor Ko tulla ha preso brevemente la parola il critico Lino Micciche, fino allo scorso anno direttore della mostra di Pesaro, ora sostituito nella carica organizzativa dal torinese Sandro Signetto. Miccichè ha lamentato ancora una volta la critica condizione finanziaria in cui da tre anni la manifestazione cinematografica pesarese è costretta a dibattersi. «Con meno di cento milioni, oggi, la sopravvivenza della mostra è in grave pericolo », ha detto in sintesi. « Ad ogni edizione riduciamo qualche servizio, tecnico e culturale. Non possiamo più sottotitolare in italiano i film, abbiamo abolito la traduzione simultanea per l'inglese. La documentazione in volumi, che in passato fornivamo a tutti i partecipanti, e che era il nostro punto di orgoglio, ora è ridotta ad un solo libro e alle schede sciolte ». In tempi di sprechi scandalosi, Pesaro non riesce a trovare i pochi milioni necessari per sopravvivere e proseguire il suo stimolante discorso culturale cominciato tredici anni fa. L'appuntamento per la quittordicesima mostra internazionale del nuovo cinema sembra incerto. E' una rassegna di film scomodi e commercialmente poco produttivi. La cultura senza mercato stenta sempre a trovare finanziatori. Sandro Casazza