Un'India nuova o il caos

Un'India nuova o il caos PREGIUDIZI RELIGIOSI E ODII OSTACOLANO IL PROGRESSO Un'India nuova o il caos Perché una delle nazioni potenzialmente più ricche è tormentata dalla povertà - Il profeta della "rivoluzione totale" (Dal nostro inviato speciale) New Delhi, 4 settembre. «Soltanto la Rivoluzione Totale può salvare l'India». Jaya-Prakash Narayan (confidenzialmente, per tutti, JP) è stato il personaggio-chiave nella storia recente di questo Paese: venerate discepolo del Mahatma Gandhi, ex marxista scivolato verso i più attenuati princìpi del sarvodaya (una sorta di collettivismo assistenziale), è stato lui a lanciare la campagna contro la corruzione del regime di Indirà Gandhi e a coagulare attorno a sé le forze degli oppositori; è stato lui a guidare con successo la traballante coalizione del Janata Party nell'avventura elettorale del marzo scorso; è stato lui a scegliere Morarji Desai come primo ministro, preferendolo al più popolare Ram. Ora nuovamente a lui — sempre super partes e sempre fuori della politica spicciola — guardano gli indiani, in bilico tra l'entusiasmo per la riconquistata democrazia e la delusione per la scarsa efficienza dei primi mesi di governo del Janata; e Narayan non si è lasciato sfuggire l'occasione di dare nuova esca alle polemiche, proclamando di aver ormai compreso che «la lotta di classe sarà inevitabile» per trascinare l'India sulla strada del vero progresso sociale. La sterzata a sinistra di JP ha già provocato un «terremoto» psicologico, dato il potere carismatico di questo personaggio. «Che cosa lo ha indotto a tornare alle sue vecchie idee marxiste?», si sono subito chiesti, un poco preoccupati, i suoi compagni di strada. Ma la risposta non è difficile trovarla, basta guardarsi attorno: in questi anni l'India è giunta ad uno stadio tale di prostrazione economica, di contrasti sociali, di degradante miseria dei più poveri, che «qualsiasi passo compiuto all'interno delle istituzioni vigenti si stempera contro una barriera insormontabile di ostacoli». La sola via d'uscita, allora, è quella di «rompere il cerchio, una volta per tutte». Ma è — JP lo sa — la via più difficile in un Paese dominato da un aspro tradizionalismo sociale (di cui la ferrea divisione in caste, solo uf¬ ficialmente abolita, esprime uno degli aspetti più odiosi) e da incredibili superstizioni religiose (quelle relative alle «vacche sacre», alla natalità, e così via). Contro tutto ciò Narayan ha combattuto per anni brandendo l'arma pacifica del sarvodaya, incitando i suoi connazionali, e soprattutto i giovani, a costituire dei janata sarkars, ossia dei «governi popolari» che non si sovrapponessero alle istituzioni statali ma servissero soltanto a prevenire e controllare dal basso, in ogni singolo villaggio, le ingiustizie, le sperequazioni, i soprusi, le assurdità. Ora, secondo JP, questo non basterà più: «Le categorie più calpestate hanno il diritto e il dovere di organizzarsi, di difendersi, di farsi giustizia». Una riscossa? Sarà l'ora della riscossa per gli harijans (i «fuori-casta»), per le comunità tribali, per i senza lavoro delle metropoli e i senza terra dei villaggi? Certo, le atrocità compiute quotidianamente contro di essi hanno raggiunto una frequenza e un'intensità che ha dell'incredibile. Alcuni giorni fa, otto «maggiorenti» di un paese del distretto di Jalna, hanno, con un'accetta, tagliato un braccio e la lingua di un uomo che si era rifiutato di conceder loro sua moglie; due harijans, poco lontano, sono stati frustati a sangue perché un gruppo di «nobili» non gradivano che essi passassero davanti alle loro case ogni mattina (per tradizione, il «fuori-casta» non potrebbe calpestare l'ombra degli altri). Non sempre episodi del genere vengono denunciati; non sempre, quando sono denunciati, vengono puniti a dovere: per la religione, un bramino (membro della casta più alta) non commette peccato se violenta una donna harijan, e può ancora trovare un giudice tradizionalista disposto a trattarlo con estrema indulgenza, nonostante la legge. «Su questa strada del costume sociale — dice Narayan — bisognerà battere sempre di più nel futuro. Un matrimonio tra persone di caste diverse è, qui in India, ancora un fatto rivoluzionario, più rivoluzionario di un cambiamento politico: dovremo favorire l'aprirsi di queste brecce». Ma esse saranno soltanto la conseguenza di una «rivoluzione» molto più ampia, che potrà anche non essere pacifica: «Nascerà dalla presa di coscienza, da parte dei poveri e dei diseredati, di avere lo stesso potere dei ricchi, e di avere perciò diritto a sciogliersi dal giogo del loro dominio». L'utopìa di Narayan ha una solida giustificazione sul terreno economico. Perché proprio a causa degli impedimenti etnici, religiosi, psico-sociali, i quali hanno in ogni modo ostacolato uno sviluppo razionale, l'India si trova ad essere «una nazione ricca, che è povera». E' ricca di carbone, di ferro, di petrolio, di energia. Ricca di fiumi e di piogge: ha la pianura coltivabile più estesa del mondo, con le migliori possibilità naturali di irrigazione; ne deriva — secondo gli studiosi di una organizzazione internazionale — una capacità potenziale di produzione agricola «assai vicina a quella degli Stati Uniti», produzione che potrebbe essere «facilmente duplicata o triplicata». In altre parole, l'India potrebbe essere non solo «economicamente autosufjlciente», ma uno dei principali fornitori di materie prime e di prodotti agricoli del mondo intero. Invece, lungo tutti i trent'anni della sua indipendenza, e in particolare dall'inizio degli Anni Sessanta, l'India è rimasta «pesantemente addormentata» in una stagnazione economica, contrassegnata da «irregolari sviluppi di breve termine» e da un «generale contesto di peggioramento di lungo termine». Nei quindici anni compresMra il 1960 e il 1975, il reddito nazionale è cresciuto da 13 mila a 20 mila miliardi di lire, ma il reddito prò capite è aumentato di un'inezia: da 306 rupie (poco più di 30 mila lire) a 338 rupie (poco meno di 34 mila lire). I prezzi, invece, sono saliti alle stelle, triplicandosi in quegli stessi quindici anni. Con l'eccezionale sviluppo demografico (da 440 milioni di abitanti ai 610 attuali: ogni anno si aggiunge qualcosa come l'intera popolazione dell'Australia), la disponibilità prò capite dei prodotti agricoli fondamentali è rimasta uguale o addirittura diminuita: da 470 a 415 grammi al giorno di cereali e legumi; tre chili di olii vegetali e sei di zucchero all'anno (come nel 1960); da 15 metri a 13 metri di cotone. Queste cifre diventano tragiche se si pensa alla effettiva distribuzione di tali beni: il 20 per cento della popolazione (i più ricchi) ne consuma quanti il rimanente 80 per cento. E ciò vale in ogni campo: ad esempio, di fronte ai pochi che una volta al mese prendono un jumbo della British Airways (uno dei legami psicologici di prestigio con i «maestri» inglesi) per andare a far compere a Londra o in Estremo Oriente, ci sono le decine di milioni di indiani che non si sono mai spinti al di fuori del proprio villaggio. Triste boutade La disuguaglianza, l'ingiustizia, il sopruso sono, del resto, la regola di vita sociale, specialmente nei distretti rurali (dove vivono 450 milioni di indiani) che assai spesso sfuggono a un effettivo controllo istituzionale. Non a caso la battaglia di Narayan, e di tutto il riformismo gandhiano, ha nella campagna il suo epicentro. Non a caso Nehru e la stessa Indirà Gandhi hanno sempre messo al primo posto (almeno a parole) la «rivoluzione verde», la riforma della proprietà terriera: ma in tutti questi anni si è riusciti a ridistribuire meno dell'imo per cento della terra coltivabile; il 40 per cento dei lavoratori agricoli è ancora senza un metro quadrato di terra, mentre pochi capitalisti ne possiedono migliaia e migliaia di ettari e possono continuare, con il loro potere reale, e insieme alla ricca borghesia cittadina, a ricattare lo Stato medesimo. E' una situazione che porta tutti i connotati di una disperante ingovernabilità. C'è chi propone apertamente, e non per il gusto della boutude. metodi para-nazisti: il manager di una grande industria di Calcutta ha dichiarato che «un terzo degli indiani dovrebbe essere sterminato se si vuole che gli altri due terzi sopravvivano». Indirà Gandhi, negli ultimi due anni del suo governo, ha tentato l'uscita dal cerchio attraverso le maniere forti, ma è rimasta schiacciata dall'insospettata vitalità democratica del suo popolo. Lacerato al suo interno per sua stessa natura (è una coalizione di partiti assai diversi, dalla destra induista ai comunisti), il Janata non è ancora riuscito ad esprimere neppure un programma coerente. Per ora si è puntato solo sui «gesti» clamorosi, come il ripristino della gratifica generalizzata dell'8,33 per cento a tutti i lavoratori dipendenti, che rischia però di imprimere una nuova, poderosa spinta inflazionistica. Proprio in questi giorni il ministro dell'Interno. Charan Singh, ha predisposto un nuovo piano di riforma agricola, che prevede l'abolizione dei capitalisti terrieri in favore di piccoli proprietari e fittavoli, ma le potenti lobbies dei landlords sono già all'opera per, almeno, ridimensionare la riforma. Il primo ministro Desai, nella celebrazione dell'indipendenza, alla metà d'agosto, non ha potuto far altro che promettere: «Manterremo gli impegni presi con gli elettori», ed ha aggiunto, in tono accorato: «Vorrei che fossimo uniti come una famiglia». Ma dalle file della instabile coalizione già nascono le voci di dissenso, prima tra tutte quella di Jagjivan Ram, un «intoccabile» giunto alla poltrona di ministro della Difesa, che abbandonò il Congress Party della Gandhi proprio alla vigilia delle elezioni e ora minaccia di fare la stessa cosa con i nuovi governanti, «se non agiscono subito in difesa dei più poveri e dei più indifesi». Questa inquietudine ai vertici, la sterzata a sinistra di Narayan verso l'inevitabilità della lotta di classe, il malumore crescente dei milioni di sottoproletari, potrebbero davvero combinarsi in una miscela esplosiva: da essa il caos, o una nuova India. Carlo Sartori