Come non ho vinto il Premio Campiello

Come non ho vinto il Premio Campiello Come non ho vinto il Premio Campiello Venezia, 4 settembre. Per pochi voti Saverio Strati con « Il selvaggio di Santa Venere» edito da Mondadori è il vincitore della XV edizione del Premio Campiello. Delle 300 schede compilate dalla grande giuria di lettori « popolari », 76 sono state per lo scrittore calabrese. Alle sue spalle si è classificata Gina Lagorio con « La spiaggia del lupo » edito da Garzanti a cui sono andati 73 voti; seguono Ferruccio Parazzoli con « Il giro del mondo » (Bompiani, 67 voti), Eugenio Travaini con «Il vento in testa» (Rizzoli, 44 voti), e Carlo Della Corte con « Cuor di padrone» (editore Ruzante, 29 voti). l n . Sentite, io non so che cosa provino gli altri cumpiellisti durante i tre mesi che passano dalla piccola alla grande strozzatura, cioè da quando ti selezionano i dodici giudici raffinatissimi a quando ti superselezionano i trecento che, in linea di massima, offrono tante altre belle doti di ingegno ed animo, ma non sempre quelle della raffinatezza culturale. So che l'altra sera sono arrivato in Palazzo Ducale con una sola preoccupazione: far presto. Non ho molti vestiti, salvo una cosuccia nera di velluto, anche un po' consunta, ed era l'unico indumento che, visto da lontano, poteva puntellare il mio vacillante decoro. Tutto il resto, l'ameno contorno di pubblico, una gaia presenza di mio figlio in platea (io l'avrei volentieri lasciato a casa, ma lui, maligno, s'è voluto vedere il babbo in ambasce, accomodato in una seggiola non sua), lo vedevo come se fossi stato al cinema. Lo spettatore, ero io. I protagonisti, gli altri E cosi, mi dava fastidio una certa aria stucchevole di una bella bionda in abito color fucsia, in terza fila. La scartai dalla mia attenzione. A costo di apparire mendace, i miei tre ultimi mesi sono stati occupati da tutt'altre cose che dal Campiello: la vita si imbizzisce, ti crea vuoti paurosi. Bene: ho traversato uno di questi; anzi, ci sono ancora dentro e forse per questo l'idea dell'agone, con il possibile o impossibile lauro in fondo, non mi ha emozionato. Poi il libro che avevo scritto, «Cuor di padrone», non mi piaceva più. Riaffiorava come un rigurgito lontano, un po' acido. Meglio tenersene distante. Mai riletto. Sapevo che non ero a Lourdes, e che non c'era al mondo un solo motivo per poter vincere: sono una specie di topo di laguna, sgradevole, inamabile, e il mio dannato libro pantografava questa osticità. Potevate, dite voi, trovare trecento persone disposte a identificarsi con un cagnaccio brutto, panciuto, brachilineo, smerdato e tra l'altro ambizioso? Non aspetto neppure il vostro educatissimo «no». Ne faccio una ovvia certezza. E allora capite perché ormai guardavo agli altri quattro concorrenti in lizza, quasi fossi stato io uno dei trecento destinati a dare il loro voto. Con simpatia per tutti, anche se quel famoso vuoto (che riguarda miei dati biografici) non mi aveva dato spazio per leggere i loro libri, salvo quello della Lagorio, che io stesso avevo brevemente presentato, con altri, a Venezia prima dell'ingresso in cinquina Riandavo a strati: un po' timido ma terribilmente serio. Ipotizzavo che meritasse la vittoria, come infatti è avvenuto. E il mio amico Parazzoli, uomo adorabile, civile ritenuto, garbato, di un suo cattolicesimo non di comodo? Ero certo che sarebbe stato un buon Supercampiello. Travaini lo avevo conosciuto appena la sera prima: pieno di brio, allegro, non preoccupato nemmeno lui. E pensavo (no, non era la volpe che non giunge all'uva, troppo alta per la sua bocca): «£' tecnicamen le impossibile ch'io vinca, con alle spalle questo mini-editore, simpaticissimo ma un po' sinistrato, con ques'o libro bruttissimo. Però, se tossi capitato in una Lourdes letteraria, e qualche carismatica madonna mi avesse scelto quale Su prrutsvsdtgumpncRouSrmtdp perstar, come diavolo mi sentirei?». La risposta, in sintonia con il romanzo, visto interamente da un'ottica canina, fu: «Da cani!». Mi sarebbe arrivato addosso un tumultante pubblico che non conoscevo. Abituato come sono a scrivere sotto impulsi viscerali, infischiandomene del successo, avrei dovuto d'ora in poi lottare con le tentazioni di Sant'Antonio delle grandi tirature. Magari aggiustare un capitolo, strizzare in un determinato punto l'occhio al lettore. Le conclusioni, in quella sera, piena di luci televisive che facevano parere nuovo anche il mio vecchio abituccio mi confortarono. Restavo indietro, indietro, nel mio odiosamato angolino. Non subivo una traumatica perdita d'identità. Sarei ancora stato libero di scrivere altre brutte cose, ma assolutamente mie. Abbracciai con sincero trasporto il vincitore. Dopo tutto, dal mio obliquo punto di vista, era più facile perdere che vincere. Carlo Della Corte

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