Grassa, miope e stupenda di Massimo Mila

Grassa, miope e stupenda Grassa, miope e stupenda Nella fretta e nella confusione della notizia improvvisa, non è possibile parlare della Callas con la estensione e l'approfondimento che richiederebbero la grandezza dell'artista e la risonanza, anche mondana, della persona. Meglio affidarsi a qualche ricordo. Una lontana Sagra Musicale Umbra, l'oratorio San Giovanni Battista di Alessandro Stradella (bellissimo, tra l'altro). Cantava un soprano greco, sconosciuto ai più: Maria Kallas, con la K, recava il programma. Crassissima, enorme, brancolava quasi sul palco, di tanto era miope. Ma quando aprì bocca, che miracolo! Miracolo anche in confronto a quello che l'artista divenne poi: regina del canto drammaticamente intenso, an¬ che una sola nota, tutta intrisa di passione. Nell'oratorio di Stradella (sebbene questi fosse, per i suoi tempi, un'eccezione proprio nel senso della profondità d'espressione musicale) non c'era molto posto per quegli scatti, quegli impeti, quelle insurrezioni vocali che la fecero poi paragonare a una tigre. Stradella, Seicento: cantare bisogna, un cantare piano, rotondo, midolioso. E | la voce di questa sconosciuta fluiva infatti in maniera paradisiaca, senza alcuna asprezza, senza stridori, senza ombra di ruggine sul bellissimo metallo. L'artista drammatica si rivelò poco più tardi, con quella Medea di Cherubini, che è un caso forse unico di opera tutt'altro che superlativa, ri- portata in vita irresistibilmente dalla forza di un'interpretazione. Un altro ricordo. A Roma, al teatro Eliseo, la tempestosa stagione d'opere moderne o rare organizzata, con rovinosa larghezza di vedute, da Guido M. Gatti, col concorso di Petrassi, di Vincenzo Tommasini e d'altri generosi. Si riesumava II Turco in Italia di Rossini, con le scene gustosissime di Maccari. Protagonista, la Callas. Toh! la Callas in veste comica, a cantare l'opera buffa! Che cosa ne uscirà? Ne uscì qualche cosa d'incredibile. L'artista che aveva ormai avuto tempo di diventare una diva, intrattabile, superba, sfoderava una capacità di buonumore, un'allegria da ragazzaccia sventata. La sua parte reca in quell'opera un do sopracuto in posizione difficilissima, e che invece dev'essere cantato col sorriso sulle labbra, spavaldamente e allegramente. Zampillò limpido, fresco, sereno, quel do, come un fuoco d'artificio: se avessimo visto di colpo sbucare dalle tavole del palcoscenico una rosa vera, autentica, col gambo, le foglie, le radici e tutto, non saremmo rimasti più stupiti. Fu questa disponibilità di diversi registri vocali ed espressivi, che le permise di darci una Violetta quale non abbiamo mai sentito l'uguale, in quella Traviata con regìa di Visconti e direzione di Giulini, che restituiva alle nostre generazioni il capolavoro verdiano, come l'esecuzione di Toscanini l'aveva restituito ai nostri padri. Tutti lo sanno che per la parte di Violetta ci vorrebbero due artiste, non solo diverse, ma dotate di qualità opposte, che quasi sempre si escludono a vicenda. Uno spericolato soprano di coloratura per il primo atto, a rendere nei vocalizzi l'ebbrezza spensierata della donna di piacere. E poi un soprano lirico, commovente, ricco d'emozione profonda, capace, come si dice, di cantare col cuore, e magari anche con altri visceri. C'è chi fa bene il primo atto, poi resta un po' freddina. C'è chi riesce ottimamente nell'emozione del secondo e terz'atto, ma annaspa come può nelle esigenze di bravura del primo. Lei era perfetta nell'uno e nell'altro compito. E la regìa di Visconti le aveva conferito una valentìa di attrice che poi sviluppò per conto proprio. Nel primo atto, quando gli invitati sono partiti, e Violetta ripensa a quel giovane che le ha destato nel cuore un sentimento sconosciuto, Visconti la faceva sedere — ormai sola nella sua ricca casa d'alta mon¬ dana — sul tavolo, e dondolare una gamba, finché — hòp! — faceva volare per aria una scarpina. Quel momento di domestica disinvoltura, di privacy ricuperata dopo la fatica della festa, fu un tocco di realismo geniale che suscitò lo scandalo e l'indignazione delle vestali del patrio melodramma. Ohibò!, ci fu chi scrisse: « Ci voleva soltanto un regista di nobili natali, dimenticati nelle volgarità e per le volgarità del neo-realismo cinematografico, per far compiere a lei, come è avvenuto in un nostro grande teatro, atti più che indecorosi, addirittura frenetici o di una improvvisa ebrietà nevrastenica ». La retorica e la boria del melodramma serio sono dure a morire, e la graziosissima parabola della scarpina di Maria Callas fu oggetto di severi apprezzamenti fra gli abbonati della Scala. La Callas non mancava di spirito né, con tutte le sue pose da diva, d'una freschissima birichineria. Una sera, al Biffi o al Savini, a cena con un gruppo di altissime dame della Milano bene, fece cadere un cucchiaio sotto il tavolo e si chinò di colpo a raccattarlo. Si tirò su con una risata trillante, e puntando il dito contro ognuna delle sue blasonate o ricchissime compagne di tavola, le apostrofò per nome una per una: — Tu..., tu..., e tu..., e tu...: tutte tutte siete coi piedi fuori delle scarpe lì sotto il tavolo! Col tempo, e con la cura dimagrante che le aveva reso una silhouette incantevole, la voce s'era cominciata a deteriorare, acquistando una certa asprezza e disuguaglianza di registri. Si buttò così a un repertorio più drammatico, Parsifal, Tristano, e anche i veristi — Chénier, Butterfly, Tosca — che non le piacevano molto. Fu allora che emersero al massimo le sue qualità d'interprete. Ma chi non ha sentito la Callas giovane, grassa, miope del S. Giovanni Battista, o quella gioconda del Turco in Italia, non sa che cosa abbia potuto essere, nella gola di questa artista, la piena felicità del canto. Praticamente, è dalla sua apparizione che nel mondo s'è creato un nuovo interesse per l'arte vocale, una rinascita del belcanto quasi fine a se stesso, errore nel quale ella non cadde mai. Sicché, nonostante le sue prodezze vocali, nonostante le sue pose da diva, nonostante la superbia spesso indisponente dei suoi modi, pure non riusciremo mai a ricordarla come una mera « virtuosa », ma come un'artista. Massimo Mila

Luoghi citati: Italia, Milano, Roma, Toscanini