Dolce cipresso
Dolce cipresso Il mio erbario Dolce cipresso GIUSEPPE LURAGHI Ordinato e gentile, educato anche quando è bambino piccolo così. Sta in piedi diritto, composto, con l'abito scuro altillatissimo. Solitario, non ama le frotte numerose, e se mai deve stare in compagnia, ama le lunghe file allineate, disciplinate e serie, o un gruppetto di tre, di cinque; chissà perché ama i numeri dispari per bisbigliarsi da vicino confessioni sottovoce. Non sbraccia mai: saluta il vento con un piccolo grazioso inchino della testa a punta: riverisco. Per questo suo fare per bene spesso noi scegliamo il cipresso per dare il benvenuto a chi arriva, all'ingresso della strada che mena alla villa, alla casa sulla collina. Un cipresso di qui, l'altro di là, i due alberi sembrano due cortesi gendarmi che attcstano la legalità della proprietà: qui comincia il podere del signor Giovanni, là quello del signor Anselmo. Noi fidiamo completamente nella saggezza della sua lunga età. La lunga età che ci dissuade dall'affidare alla sua secolare testimonianza labili promesse di cuori trafitti di nomi d'innamorati. La lunga età che ce lo fa scegliere come fedele guardiano dove ci facciamo fare l'ultimo giardinetto al sole che amiamo custodito in silenzio e guardato con discrezione. E non sarà invece che, contrariamente a quanto noi crediamo per la sua apparenza austera, il cipresso si burli di noi e dei nostri sentimenti? Cos'è, questo suo evidente amore per le vigne buone e questo suo punteggiare di neri esclamativi imbarazzami il sommesso discorso degli ulivi? Che sia un ironico esclamativo anche il suo segno nella retorica solennità dei nostri sepolcri, che ingenuamente noi affidiamo alla sua dignitosa piela?
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