Il direttore d'orchestra di Massimo Mila

Il direttore d'orchestra SCHERCHEN ATTRAVERSO LE LETTERE Il direttore d'orchestra Duecentoquarantadue lettere di Hermann Scherchen alla prima delle cinque o sei mogli che ebbe, pubblicate l'anno scorso dalla Henschelverlag, restituiscono e spiegano la figura di questo grande direttore d'orchestra, al quale va debitrice come a nessun altro la causa della musica moderna, anche e in particolare quella italiana, e che morì a Firenze undici anni fa, di settantacinque anni, dopo aver diretto ì'Orfeide di Malipiero al Maggio Musicale. La poligamia si affaccia anche in queste lettere, che includono il periodo del secondo matrimonio, con l'attrice Gerda Miiller, e sul finire del '35 già si avanza l'ombra della terza moglie, cinese. Era un aspetto della sua irresistibile carica vitale, che gli faceva esclamare: « Quanto amo la vita! », salvo poi sospirare, quando l'intemperanza lo metteva nei pasticci: «Questo dannato Lebensgefiihl! ». Una capacita lavorativa mostruosa. Un bisogno assillante di elevare la professione di direttore d'orchestra a missione sociale e comunitaria. Non solo il compito di aiutare i compositori viventi ad ascoltarsi, ma l'ambizione di diventare un centro propulsore di attività educativa, sia attraverso le occasioni esecutive di festival, stagioni e concerti singoli, sia attraverso l'insegnamento, la stampa, gli studi di acustica e di teoria musicale. Gli sarebbe piaciuto stringere in una specie di federazione gli ambienti nei quali si esplicava in prevalenza la sua attività: Monaco, Vienna, Winterthur e Berlino. Monaco era forse quello che preferiva e dove contava gli amici più fedeli. In fondo Hindemith, del quale pure non si nasconde i limiti creativi, era il compositore a lui più vicino, anche se gli accade assai presto di manifestare un'enorme ammirazione per Berg. Nel giovanile Quartetto ravvisa tali doti « alle quali bisogna dave il massimo credito, sicché considero mio dovere fare più di quanto lit fatto finora per Webern e Berg, al fine di promuovere il loro sviluppo attraverso esecuzioni». Di Schònberg gli scappa detto, dopo aver diretto trionfalmente la Serenata op. 24: « Questo è il pii": gran musicista dopo Beethoven ». Ma anche: « L'autodivinizzarsi di Schonberg e la venerazione idolatrica dei suoi discepoli sono ridicolaggini di un'epoca morta e sepolta ». Da quando succedette a Furtwàngler nella direzione dei concerti di Francoforte, nel 1922, si assiste allo spettacolo d'un direttore intento alla conquista e alla consapevole ricognizione del proprio repertorio, antico e moderno. L'ammirazione per « la grandezza di Berlioz » e per Les Prelude* di Liszt, l'entusiasmo per il Triplo Concerto di Beethoven, « questo pezzo sereno, pieno di vibrante gioia della musica », e per il Lohengrin, per il Don Giovanni, « questa pazza opera », messi in scena a Trieste nel l935 in esecuzioni memorabili. Sta concertando l'ouverture della Gazza ladra e scrive alla moglie: « Che birbante di razza dev'essere stato questo Rossini: passione, pompa,-grazia, civetteria, arroganza, selvaggio temperamento spumeggiante e in più il senso della convenienza dei mezzi impiegati, espressione e melodia; tutto è 11 in abbondanza, rigurgita di succhi. Mi sono arricchito umanamente con questo pezzo, con la sua leggerezza fiammeggiante, la sua qualità di danza, l'incessante spinta in avanti di questa musica ». Prepara la prima Sinfonia di Schumann, e se la prende col luogo comune delle sue deficienze d'orchestrazione: « Era un eccellente creatore anche per lo strumentale, solo con una potenza di fantasia timbrica assolutamente inattesa ed estranea al suo tempo ». La smania pedagogica era pari solo alla continua disponibilità ad apprendere. « Devo imparare, imparare, non per constatare con soddisfazione quanto pòco sanno gli altri, ma per alfine sapere a fondo qualchecosa, qualche piccola cosa, e di lì sapere a fondo tutto. Ma sapere a fondo significa anche vivere a fondo, o almeno poter vivere a fondo ». Ascolta dischi del « fenomeno vocale » Caruso, e commenta: « Qui c'è da imparare, qui c'è da stabilire delle leggi! » ddtascraciesdalzaefpsudcoQzVL«rèeIqsdptddr. Era continuamente impegna- to a sorvegliare se stesso, nel fisico e nel morale. La lotta contro la corpulenza, per mez-zo di lunghe camminate, nuo- tate e mal tollerate rinunce' a-limentari, è un leit-motiv di queste lettere: «Perché gli uo-mini debbono ingrassare dopo i trentun anni? » si chiede con comica disperazione. Ma soprattutto costruisce goe- thjanamente se stesso dal di dentro, sorveglia il Reifwer- den, il maturarsi della sua vi- ' ta. Si propone di temperare gli ; scatti collerici del suo tempe- ' ramento e si rallegra quando ci riesce. Controlla la propria esuberanza: « Sono riuscito a dirigere tranquillamente fino alla fine coi piedi uniti (senza muoverli), e sono stato più efficace che mai ». C'era in lui una forte com- ponente di pedanteria, ma sus-1 sunta dentro un ideale etico di ordinata precisione, di « economia », come lui diceva. Quella « convenienza dei mezzi » che ammirava in Rossini. Va a vedere un film di Harold Lloyd, e anche 11 trova che « c'è enormemente da imparare » per il modo come tutto è « splendidamente elaborato ed economicamente calcolato ». In Italia, durante il fascismo, quello che lo sbigottisce al festival di Venezia è l'« orgia di dilettantismo », per cui « dal punto di vista organizzativo tutto è così irresponsabile, indifferente ai costi di qualità e denaro ». mentre lui — dice — ha « imparato a disprezzare e odiare l'ineconomico ». Difetti, anche tedeschi, che non può soffrire sono: « cianciare su tutto con falsi concetti, con sentimenti nebulosi e gran rimbombo di parole, non padroneggiare la lingua, manco sospettare i fondamenti della propria esistenza ». La proprietà del linguaggio era una sua fissazione, e lo spingeva a rimproverare la moglie, la colta e studiosa Auguste Marie Jensen, per qualche espressione un po' sciatta che s'era l'asciata sfuggire in una lettera: « Abbi rispetto della lingua ». Ma le sue esecuzioni convogliavano invece una forza animalesca e nonostante la meticolosità delle concertazioni, miravano all'effetto, al brillante, al virtuoso. Il suo ideale esecutivo era di « alta leggerezza dell'ascolto, bellezza di suono e virtuosistica esposizione dell'opera ». Ascoltando il violinista Huberman, polacco, si avvedeva della seriosità e del la mutria di solisti e direttori tedeschi, sempre preoccupati di far « grande » e « profon- do », e rifletteva: « Il concerto non è filosofia. Un concerto è una prestazione di bravura, che deve produrre ammirazione ed entusiasmo ». L'arco di tempo coperto dalle lettere, 1920-1939, consente un quadro della situazione musicale, e anche politica, del , a o i l'Europa centrale fra le due guerre, dalla breve « Experimentierfreudigkeit » della Germania dopo la rivoluzione fino all'infame clausura nazista, che lo scacciò progressivamente dai paesi dove aveva sperato di « operare in estensione e far di sé una cellula germinale, un centro, intorno al quale cresca una comunità, uno stile, una mentalità ». Questo gli sarebbe stato possibile solo nella grande Germania, « un grande popolo, a misura di storia del mondo », non nella piccola Svizzera, che pure divenne la sua provvidenziale seconda patria, ma che lo soffocava come « una comunità borghese richiusa su se stessa, entro un quadro politico privo di problemi ». Uno dei paesi dove potè continuare a lavorare fu l'Italia, dove contava amici sinceri, come Casella, Labroca e Malipiero, di cui diresse Pantea a Venezia nel 1932. Lo favoriva il lassismo politico delle autorità. De Pirro gli aveva chiesto un articolo per una rivista del regime. « Ma guardi che io sono comunista », aveva avvertito Scherchen onestamente. De Pirro, che lui chiama De Birro, deve aver risposto: « E chi se ne frega? », o qualchecosa di simile. Sebbene fosse iscritto al partito, il comunismo di Scherchen non doveva essere dei più ortodossi, se il suo « maitre à penser » era il filosofo Eugen Heinrich Schmidt, fautore d'una specie di anarchismo socialista libertario. « Libro tanto buono quanto pericoloso » gli pareva nel 1932 la Storia del bolscevismo di Rosenberg, uscito nel 1927 dal partito comunista tedesco di cui eia stato uno dei massimi dirigenti. In giovinezza il suo impegno politico si estendeva, o avrebbe voluto estendersi, all'attività musicale, facendo leva su una singolare, e in seguito attenuata, propensione per il folclore. Professava allora curiose idee sull'avvenire della musica, radicata nel Volksgesang, germogliata « dal più profondo sentimento comunitario ». Vagheggiava una « creatività semplice e monumentale », presumibilmente un equivalente dei murales di Orozco, Siqueiros e Rivera, e cercava nelle Passioni di Bach un fondamento alla musica per le masse. Curioso prologo per chi era destinato a diventare uno dei maggiori difensori dell'arte ermetica di Webern e Schonberg! Prigioniero civile in Russia dal '14 al '18, aveva scritto due canti per la rivoluzione divenuti popolari, di uno dei q o o i a o i quali, Briider, zur Sonne, s'impossessarono poi i nazisti per un curioso caso di « parodia » I politica che gli fece molto dispetto. Più tardi l'impegno artistico prese il sopravvento in lui, quello politico restando valido come regola di condotta personale (si veda il rifiuto di dirigere gli inni nazionali a Bologna, tre anni dopo il fattaccio Toscanini, e la rinuncia ad un vantaggioso contratto con la radio tedesca, che già nel 1932 inseriva una clausola contro l'esecuzione di musiche d'ebrei). Per autori divenuti nazisti, come Egk e Orff, conservò la stima artistica concepita ai loro inizi e continuò sempre ad eseguirli. Casella gli pareva « un eccellente collega con una squisita moglie franco-tedesca » e « una figlia di sette anni che tiranneggia tutti alle prove e alle esecuzioni ». Il 15 marzo 1933 registrava senza commenti: «Malipiero è entrato nel partito fascista »; e partiva con lui per Asolo, dove esaminava col più grande entusiasmo gli spartiti di Filomela e l'infatuato, di Merlino maestro d'organi, e soprattutto la trilogia del Mistero di Venezia: « E' una cosa grandiosa, e io debbo assolutamente eseguirlo! ». Gli piaceva l'Italia; l'indisciplina e il talento degli orchestrali lo irritavano e incantavano in pari misura. Sapeva godere come pochi il « tranquillo lasciarsi ben vivere di uomini ben nutriti, intorno a una ricca tavola, vini, e in più la spensieratezza dell'esistere, il sicuro non saper niente, non curarsi del futuro », anche se lo pungeva il rimorso del pensiero dei poveri tedeschi « cacciati e tormentati, mal nutriti, soffocati dalle preoccupazioni ». A Venezia lo entusiasmava la banda in piazza San Marco. E poi: « Da tempo non ho visto gente così ben vestita come qui; di colpo ci si rende conto come van male le cose in Austria e in Germania ». A Napoli il cielo azzurro gli suggeriva pensieri luminosi: « Oh, come capisco Goethe, j Nietzsche e tutti gli altri tedeschi con la loro nostalgia del Sud! ». Elogiava i triestini che avevano decretato un «successo gigantesco» a Busch e Serkin in un programma che lui stesso giudicava un po' pesantino: Reger, Suite in stile aatico, una Sonata di Brahms e la decima di Beethoven. Trovava il Teatro di Torino (dove aveva eseguito Le pauvre matelot di Milhaud e L'histoire dit soldat con le scene e i costumi originali di Auberjonois) « incantevole, tecnicamente splendido e fornito di personale eccellente ». E all'Italia tornò sempre volentieri, anche dopo aver superato le terribili distrette economiche e morali in cui l'avanzata del nazismo aveva cacciato la sua esistenza, strappandogli l'umano e commovente lamento: « Oggi è quasi impossibile, senza avere un paese alle spalle, assicurare la vita a sé ed agli altri ». Massimo Mila