La via politica di Alfredo Venturi

La via politica La via politica I quattro massimi Paesi della Comunità europea sono stati, tutti, potenze coloniali presenti nell'Africa Nera. E se l'esperienza coloniale della Germania finì con la prima guerra mondiale, quella dell'Italia con la seconda, Francia e Gran Bretagna hanno conservato quel ruolo fino agli Anni Sessanta, fino al grande tramonto storico, cioè, del colonialismo classico. I rapporti fra Europa Occidentale e Africa a Sud del Sahara sono ancora in qualche modo condizionali da queste realtà del passato. In particolare, la più lunga persistenza anglo-britannica nell'amministrazione più o meno diretta di larghe parti del Continente ha dato luogo, dopo la decolonizzazione, al formarsi di due grandi blocchi, una english speaking Africa e una Ajrique jrancophone, nei quali la presenza delle rispettive potenze ex coloniali resta quasi sempre dominante. In generale, soltanto brusche rotture di tipo politico hanno potuto allentare quei legami di tipo storico-culturale. E' il caso dell'Eritrea, assorbita dall'Etiopia e in rivolta da quindici anni, per quanto riguarda l'Italia. E' il caso della Guinea-Conakry nji confronti della Francia, dell'Uganda di Amin nei confronli della Gran Bretagna. Un altro elemento che ha intaccato qua e là le migliori « posizioni di partenza » delle ex potenze coloniali è stato la concorrenza « politica » delle superpotenze, la loro strategia di penetrazione, a volte spregiudicata, in vista di obbiettivi extracontinentali di reciproco accerchiamento. Infine, per quanto riguarda i rapporti bilaterali e soprattutto il settore degli investimenti di gruppi privati, l'evoluzione di questi ultimi anni è andata nel senso di una sempre maggiore cautela. Lo spauracchio delle nazionalizzazioni, che si basa ormai su una solida casistica, ha disincentivato gli investimenti veri e propri sui mercati dell'Africa Nera. Alla richiesta più che giusta, proveniente dai Paesi africani e in genere dall'intero Terzo Mondo, di « un codice di comportamento » per gli investitori nazionali e multinazionali, corrisponde, da parte degli operatori economici europei, la richiesta di qualcosa di analogo da parte di quei governi. Se costoro sono interessati agli investimenti, non possono, si dice negli ambienti finanziari e industriali europei, lasciare gli investimenti senza tutela. Resta il fatto che, oggi, la maggior parte degli investimenti che i Paesi dell'Europa occidentale rivolgono all'Africa Nera, avviene per la via multilaterale. I canali sono tanti, e diverse le forme. Una prima distinzione deve essere fatta fra finanziamenti di tipo assistenziale, come quelli che l'Agenzia internazionale per lo sviluppo (Ida) della Banca mondiale concede a bassissimo tasso d'interesse, e quelli propriamente economici, a tassi di mercato. Questi ultimi la Banca mondiale li concede attraverso la Corporazione finanziaria internazionale (Ile), e si tratta di prestiti ad aziende private che investono nei Paesi in via di sviluppo, con partecipazioni « minoritaria » dei governi interessati. E' evidente che questi ultimi finanziamenti, chiamando in causa i governi, sia pure con quote che devono restare di minoranza, sono praticamente limitati, nell'area che c'interessa, a due soli Paesi, il Kenya e la Costa d'Avorio. La Banca mondiale, poi concede direttamente prestiti ai governi per consentire loro di acquisire partecipazioni negli investimenti, in questo modo correggendo in parte i limiti dell'Ifc. Abbiamo poi, l'attività della Comunità economica Europea, con il suo Fondo europeo di sviluppo consacrato agli interventi nei Paesi firmatari della Convenzione di Lomè, i cosiddetti Paesi Acp (Africa, Caraibi Pacifico). Nel suo primo anno di attività dopo l'entrata in vigore della Convenzione di Lomè, cioè fino allo scorso mese di marzo, il Fed aveva investito nei Paesi Acp 566 milioni di unità di conto. Le iniziatiti ve finanziate: soprattutto opere pubbliche, scuole, ospedali, programmi di sviluppo agricolo. Nei rispettivi settori di competenza, poi, intervengono nei Paesi in via di sviluppo organizzazioni come la Fao, il programma di sviluppo dell'Onu, l'Unicef, l'Unesco, l'Organizzazione mondiale della sanità. Ci sono, ancora, istituzioni finanziarie regionali come la Banca africana di sviluppo, cui partecipano numerosa banche europee, o la Banca per lo sviluppo dell'Africa Orientale, che è il braccio finanziario della vacillante Comunità est-africana. Ci sono anche fondi di sviluppo, in qualche modo simili a quello europeo, in alcuni Paesi arabi come il Kuwait o l'Arabia saudita: in questi casi gli aiuti si rivolgono verso i Paesi musulmani, o almeno prevalentemente musulmani. Un'organizzazione carnlteristica in questo campo è la Cdc (Commonwealth Development Corporation), che interviene con criteri economicistici anche al di fuori dei Paesi del Commonwealth, finanziando progetti e studi di fattibilità, fornendo management, in genere acquisendo partecipazioni iniziali dirette che poi a volte vengono via via riscattate dai singoli governi. C'è poi la Si fida, che ha sede a Ginevra, una società finanziaria formata da banche e aziende private, con il fine statutario di promuovere investimenti per lo sviluppo. E infine enti finanziari per Io sviluppo, con forme e caratteristiche analoghe, esistono in Francia, in Gran Bretagna, in Germania. Non in Italia, dove presso il ministero degli Esteri esiste d'altra parte un fondo per l'assistenza tecnica, che finanzia gli interventi che rientrano in quegli accordi di assistenza tecnica che l'Italia ha sottoscritto con molti Paesi africani. Manca in Italia, una vera e propria banca dello sviluppo: l'istituzione di una banca d'oltremare fu proposta, a suo tempo, ma non piacque la denominazione, in cui qualcuno volle vedere una specie di improbabile nostalgia imperiale. Non è che un esempio, questo, della confusione che regna fra molti politici europei in materia di politica dello sviluppo. Un altro esempio: in Italia si considera « aiuto allo sviluppo » la differenza tra il normale saggio di mercato e il saggio agevolato d'in- teresse che viene applicato ai cosiddetti crediti di fornitura, che come si sa sono invece aiuti all'esportazione. Da questo quadro sommario dei principali mezzi su cui si fondano i rapporti d'investimento dall'Europa Occidentale all'Africa sud-sahariana emergono le difficoltà ben note a chi si occupa di problemi dello sviluppo. E' anche per questi motivi, oltre che per più generali ragioni di egoismo e per difficoltà congiunturali, che è ben lontano il famoso obbiettivo delle Nazioni Unite, per cui i Paesi sviluppali dovrebbero indirizzare verso quelli in via di sviluppo lo 0,7 per cento del loro prodotto nazionale lordo. I Paesi dell'Europa Occidentale, in particolare, potrebbero fare molto di più nei Paesi dell'Africa Nera, se soltanto i meccanismi internazionali d'intervento, le garanzie, il controllo degli investimenti fossero meglio organizzati. Ciò non toglie del resto, che la presenzaeuropea nelle economie dell'Africa Nera sia comunque un fenomeno di grande rilievo. La Francia è attiva, soprattutto nei Paesi che parlano la sua lingua, con investimenti in molti settori, dal tessile alla chimica ai trasporti. La Gran Bretagna è attivissima soprattutto nell'Est Africa. La Germania ha grossi progetti nei settori minerario e chimico, e guarda con interesse soprattutto ad alcuni Paesi, come la Tanzania e il Camerun, ai quali la lega una vecchia storia di presenza coloniale. L'Italia, soprattutto con investimenti di imprese a partecipazione statale come quelle dei gruppi Iri e Eni, è presente in moltissimi Paesi nei settori delle opere pubbliche (impianti idroelettrici, strade, ferrovie), del turismo, dell'industria del legname e del cemento. Molte di queste iniziative sono internazionali: e questa è una strada che andrebbe percorsa più frequentemente, soprattutto dai Paesi della Cee. Alfredo Venturi mSssmmm «ime