La passione e la ragione

La passione e la ragione Sulla fuga di Kappler La passione e la ragione Allorché venne la notizia della libertà condizionata concessa a Kappler pensai fosse il precedente della grazia e scrissi su questo foglio, approvando; dicevo che se in quell'incendio del Walhalla che fu la fine della guerra Kappler fosse stato impiccato o fucilato, non me ne sarei doluto, ma che giudicavo l'ergastolo pena ben più dolorosa della condanna a morte, provavo per essa la ripugnanza che molti credenti avvertono per il dogma dell'In ferno. Ed altresì mi sembrava che gl'italiani dovessero essere cauti in questa materia, perché i suoi tribunali avevano mandato assolti i più feroci criminali del periodo fascista; e durante l'occupazione tedesca non c'era quasi cattura di ebrei che non fosse effetto di un delatore italiano, e mai questi era stato denunciato o ricercato o condannato. C'è un solo italiano all'ergastolo per un massacro di partigiani o di ebrei? Sono forse all'ergastolo i sottufficiali c marinai della nave da guerra Barbarigo, che uccisero i loro ufficiali per portare l'unità dalla Sardegna alla Repubblica sociale? Ci fu sdegno per l'apoteosi che furono i funerali di Valerio Borghese, la cui sepoltura nella basilica Liberiana indicai su una rivista giuridica come una violazione di norme internazionali sui limili della extraterritorialità, cui fa richiamo il Trattato del Laterano? Quell'articolo mi procurò qualche lettera di protesta, anche d'insolenze, ed altre di adesione. Ora e seguito quel che è seguito. Nessun dubbio che l'evasione costituisca un atto di ribellione contro l'ordine giuridico che ha imposto la pena, e debba venire punita. Ma non parlerei di « ridicolo » cui ci saremmo esposti. Evasioni sono seguite e seguono dalle carceri dei Paesi con le strutture penitenziarie meglio organizzate (forse non ne seguivano dai lager nazisti e non ne seguono dai campi di lavoro russi, ma non sono modelli da invidiare); ed almeno qui i carabinieri non si sono fatti disarmare senza reagire, come si legge ogni giorno in materia di evasioni; che se poi ogni evasione di grosso criminale dovesse provocare le dimissioni del ministro, il posto di Guardasigilli resterebbe sempre vuoto. Ma non di Kappler vorrei parlare, bensì del vecchio problema della pena, per indurre più d'uno a ragionare. Per secoli si è ritenuto che la giustificazione della pena fosse nel contrappasso: la bilancia della giustizia è in equilibrio se colpa e pena si equivalgono. Quello di Kappler era il più grave delitto concepibile, doveva quindi esservi l'ergastolo, che per me è la più grave delle pene, ben superiore alla morte: senza speranza di grazia, perché la giustizia fosse assicurata. Chi ragiona cosi è perfettamente logico e non avrei nulla da opporgli. Diverso discorso per chi assegna alla pena una funzione intimidatoria; l'esperienza di un trentennio ci dice che in tema di crudeltà di guerra i processi di Norimberga non hanno arrestato alcun combattente che avesse indole efferata o credesse di salvare i suoi terrorizzando il nemico (il Presidente degli Stati Uniti fermò l'azione della giustizia contro l'ufficiale condannato per crimine di guerra contro i vietnamiti). Per mio conto credo alla funzione intimidatrice della pena, ma piuttosto a quella della vendetta mafiosa che a quella della pena statale, che opera solo rispetto a chi non vuole sporcare il certificato penale intatto o rispetto a certi tipi di delitti prevalentemente con fine pecuniario; non invece rispetto ai crimini di guerra, in cui il vincitore non punisce mai i suoi. La difesa della società è la giustificazione che sta dietro alla tesi dell'effetto intimidatorio della pena, e così dell'isolamento del colpevole; e sotto questo aspetto certamente la fuga dal carcere di Bergamo di otto rapinatori è più pericolosa dell'evasione di Kappler. La rieducazione del detenuto ed il suo pentimento. Lascerei da parte il pentimento, che mi pare elemento apprezzabile sul terreno religioso più che su quello giuridico, che in casi ben rari potrebbe accertarsi in un detenuto (rivelando il luogo dov'è nascosto il tesoro rubato? chiedendo alla propria famiglia di non mandargli un pacco né un soldo, ma di soccorrere invece i figli della sua vittima? Non saprei ipotizzare altri casi, e qui pure resterebbe il dubbio se si tratti di pentimento o di mezzo per ottenere la diminuzione od il condono della pena). Il pentimento che interessa la società è quello che porta a compiere opere di bene, che permette di dire che la vita diviene sacra quando è spesa nell'operare il bene; e sono ben rari i casi in cui il pentimento di un condannato all'ergastolo possa giovare alla società ed avere un valore che superi l'ambito religioso e morale. Ma oggi si sente spesso dire che colpevole è la società, non chi ha commesso il delitto; il figlio di un ladro e di una prostituta, vissuto dalla prima infanzia negli ambienti più loschi, allorché commette un delitto è la vittima, non il colpevole; colpevole la società. Che l'ambiente abbia forte influenza, non è dubbio; che ci siano società capaci di non generare delinquenti, non riesco a convincermene (è l'insolubile problema dell'uomo, di un peccato originale, dei concetti di bene e di male). Comunque, su questo terreno dobbiamo anzitutto ammettere il delitto d'onore: perché punire il marito che ha ucciso la moglie ed il suo amanie, se si è formato in un ambiente in cui non sarebbe più uomo rispettabile chi non vendicasse così l'adulterio? E dovremmo allora dire che anche l'ufficiale tedesco formatosi nel clima nazista, che obbediva agli ordini (si scrisse che Hitler dopo via Rasella avesse ordinato non solo le fucilazioni, ma la demolizione di un quartiere e di togliere l'acqua ai romani), sarebbe la vittima; colpevole l'ambiente in cui visse, la dottrina del suo popolo. Onde giuste le sofferenze del popolo tedesco, soprattutto dove ci fu l'occupazione russa: anche se poi i tedeschi siano riusciti a rialzarsi, ma con una Germania mutilata, l'incubo della confinante Repubblica comunista fortissima; e restando il dubbio se quella spina nel fianco che è per la Germania d'oggi un neo-nazismo, non di superstiti, ma di giovani, non sia anche un effetto di quelle punizioni. Insomma conchiuderei: l'evasione di Kappler è certamente un'offesa al nostro ordine giuridico di cui tutti dobbiamo dolerci; ma non in modo diverso da quello con cui ci doliamo di ogni evasione, di ogni delitto che rimanga impunito; dolercene anche perché è un'ulteriore prova di debolezze e crepe in tutte le branche della nostra struttura statale. Che Kappler non dovesse mai più riavere la libertà, scontare fino alla morte la reclusione, è opinione coerente in chi crede nel contrappasso, in quell'equilibrio del bilancio della giustizia da cui deriverebbe il diritto di punire. Ma è opinione illogica in chi pensa che sia l'ambiente a fare l'uomo e che pertanto vera colpevole sia la società in cui il delinquente si è formato; ed altresì in chi afferma che la gravità della pena non ha un potere intimidatorio, e crede di asseverare la sua opinione col ricordare che si davano atroci delitti là dove si applicavano feroci pene; ed anche in chi ritiene che la società abbia diritto d'irrogare pene solo per difendersi, per impedire al delinquente di nuocere ancora. Non ho menzionato una categoria, temo non numerosa, oggi: quella di quanti credono ancora in un senso del bene e del male inserito da Dio creatore nella coscienza di ogni uomo, e rammenta sempre l'« obbedisci a Dio prima che agli uomini ». Appartenevano a questa categoria i pochi che mi scris sero lettere di consenso dopo quell'articolo. Essi non ponevano in dubbio la colpevolezza di Kappler (anche il soldato deve disobbedire quando il comando è contro il precetto divino), ritenevano giusta la condanna; ma approvavano l'atto di clemenza, dopo la lunga espiazione. A. C. Jemolo

Luoghi citati: Bergamo, Germania, Norimberga, Sardegna, Stati Uniti