Usa, duecento milioni d'oppositori di Vittorio Zucconi

Usa, duecento milioni d'oppositori OSTACOLI E INSIDIE PER IL NUOVO "MIRACOLO,, AMERICANO Usa, duecento milioni d'oppositori Sono, idealmente, tutti i cittadini - La crisi dei partiti politici tradizionali ha moltiplicato i gruppi di pressione che chiedono al potere di venire a patti con loro - Trovano nella "rivoluzione televisiva" una potente e suggestionante cassa di risonanza (Dal nostro corrispondente) Washington, agosto. Nell'ultima edizione dell'elenco telefoTiìco di Washington ci sono sette pagine intere di «Associazioni». Dalla Lega per la Difesa dei Diritti del Cavallo alla Società dei Pionieri del Telegrafo, dalla potente Associazione delle Donne Votanti, agli Amici delle Armi da Fuoco, sono quasi duemila sigle accomunate dallo stesso proposito: costringere il potere politico a venire a patti con le richieste dei propri associati. E' un fenomeno straordinario, per quantità e potenza, che solo in parte si può spiegare con il naturale « pluralismo associativo » della società americana, che già Tocqueville individuava come uno dei suoi connotati caratteristici. Il moltiplicarsi dei gruppi di pressione risponde anche alla crisi progressiva dei partiti politici tradizionali e al crescente successo ottenuto da altri movimenti, i più disparati. nell'affermazione dei propri «diritti». Il miracolo americano, il tentativo di ricostruzione politica, economica e morale che Carter sta conducendo, deve misurarsi anche e soprattutto con loro, autentiche forme di opposizione, dì «pluripartitismo imperfetto» e spesso contraddittorio. La dispersione è uno dei fatti fondamentali nella storia della società americana, rappresenta una difesa della sua qualità democratica ma anche una minaccia della sua stabilità. L'America, nazione di nazioni, si regge soltanto «sulla fede in miti comuni», secondo l'idealismo conservatore di Theodore V/hite, o «sulla religione del denaro» secondo il materialismo marxista, un po' demodé, di Sweezy. E poiché entrambe le interpretazioni sono parzialmente vere (il denaro può benissimo essere un mito, soprattutto per chi non ne ha) è lecito concludere che quando danaro e miti sono minacciati insieme, l'intera società ne soffre. E' quanto accadde durante gli scorsi anni, tra il Watergate e la crisi economica, che rimisero in discussione nello stesso tempo la fede nelle istituzioni e la speranza nel profitto. Da qui è nato il dibattito sulla governabilità della democrazia americana, e su questo terreno deve misurarsi Carter per consolidare il fragile miracolo della sua presidenza. I due partiti Ormai da molti anni, almeno dalla drammatica Convenzione democratica di Chicago del '68, i politologi continuano a sanzionare imminente la dissoluzione di almeno un partito (nel '68 e '72 era il democratico, nel '76 era il repubblicano) e la fine.conseguente del bipartitismo. I democratici, osservano vari studiosi da Huntington a Dahl a Bell, sono prigionieri della loro elefantiasi confusionaria, «una specie di partito-totale senza testa e senza confini». I repubbicani sono vittime di una sterilità ideale che li costringe a non essere niente, e a definirsi soltanto in rapporto negativo con gli avversari. Gli elettori giovani non si riconoscono in essi (ben oltre la metà sono indipendenti) e gli interessi nuovi scelgono la via dell'associazione autonoma, più diretta ed efficace. La confusione e la debolezza delle due formazioni che dominano la vita americana dalla metà del secolo scorso, quando il partito Whig si dissolse generando i repubblicani, si trasferisce nel Parlamento, dove le votazioni secondo lìnee partitiche sono ormai pochissime: tra la fine della guerra e il '68, erano il 54 per cento; dal '69, la percentuale è scesa al 31 per cento. Per un Presidente, questo vuol dire non sapere mai esattamente su chi contare e chi temere al Senato e alla Camera, ricostruire per ogni legge maggioranza e opposizione. Questo processo di erosione partitica (lo si confronti con il «direttorio» dei segretari di partito in Italia, per avere una misura di paragone tra i due Paesi) ha lasciato spazio alla nascita e alla maturazione di altri potentati, che hanno a loro volta accelerato la crisi. Dall'incubatrice degli Anni 60 e 70 sono uscite forze come il femminismo, il movimento razziale, organizzazioni dei consumatori; si irrobustisce la televisione, sono cresciute la magistratura e la burocrazia, fino ad assumere proporzioni condizionanti. Sono divenute istituzioni che l'esecutivo deve attraversare per muovere dal potere nominale al potere reale. Nessun progetto sociale o economico può prescìndere dalla questione femminile, razziale o ecologica. Nessuna legge può presumersi efficace finché i tribunali non l'avranno interpretata. Nessun consenso è possibile senza l'alleanza dei mass media. E nulla può sopravvivere senza la complicità dei sedici milioni di burocrati statali e federali, attraverso i quali passano ormai, anche in America, tutti i fili del potere. La vera opposizione va cercata oggi tra queste «nuove istituzioni» che fra loro intrattengono rapporti confusi, ora alleandosi ora scontrandosi, ma suscitano una spinta sufficiente a infastidire i poteri tradizionali. C'è un sinergismo spesso involontario ma efficace che ha nella televisione e nella magistratura rispettivamente un amplificatore e un arbitro benevolo. I giudici americani, non i politici, sono stati con le loro sentenze gli artefici della rapida desegregazione razziale dell'ultimo quindicennio. Essi sono sovente i responsabili del profilo fisico delle città, potendo decidere in ultima e inappellabile istanza ogni contro- versia sui piani regolatori. In un recente sondaggio di opinione, il capo della Corte Suprema, massima magistratura, il giudice Warren Burger, era stimato il terzo uomo più potente d'America, secondo soltanto al presidente Carter e al capo della Riserva federale, l'ente che controlla la circolazione del danaro. Decidendo per anni sulle massime questioni costituzionali, quasi sempre in termini anti-autoritari (perché la Costituzione americana, comunque la si legga, è un documento potentemente libertario), i giudici hanno tolto ai «movimenti per i diritti» ogni timidezza di se stessi, dando loro convinzione di giustizia e di successo. Dal busing (l'integrazione forzata delle scuole pubbliche attraverso il trasporto degli alunni) all'aborto, dai privilegi del cittadino arrestato al principio della sottomissione dell'esecutivo al potere giudiziario, la magistratura ha sbriciolato in poche deliberazioni quel che il Parlamento non aveva intaccato in decenni di discussioni. Ha trasformato le petizioni dei «movimenti» in sentenze. E per un processo di strana simbiosi antagonistica, governo, opposizione e tribunali sono cresciuti insieme, sviluppandosi a vicenda: per accogliere e razionalizzare pressioni politiche altrimenti pericolose, e non potendo rovesciarle sul settore economico privato, che deve restare lucrativo in ogni caso, lo Stato si è gonfiato, divenendo così un bersaglio sempre più visibile e appetitoso per nuovi assalti. Come lottatori nella mischia, nello sforzo di soverchiarsi, contendenti e arbitro si sono irrobustiti a vicenda. Le "marce" Ma questa «implosione» politica non sarebbe spiegabile esclusivamente con l'intervento dei tribunali, l'aggressività dei gruppi, la trasformazione della burocrazìa pubblica e la lievitazione della «coscienza civile». La chiave ultima, il collante di tutta la nuova opposizione, vanno cercati nella « rivoluzione televisiva ». Nessuno strumento di potere ha tanta influenza diretta e misurabile nella realtà socio-politica americana di oggi come la televisione. Taluni, come Michael Robinson, arrivano a pensare che senza la tv gli ultimi quindici anni di storia Usa sarebbero siati radicalmente diversi. Un pensatore cauto come il prof. Huntington (oggi fra gli assistenti di Carter) riconosce che «l'accresciuta dipendenza dai telegiornali come fonte primaria di notizie si è tradotta in una ridotta funzionalità del sistema politico, in cinismo, malessere sociale e generale indebolimento della lealtà partitica». Insomma, da guardiano dell'ordine costituito e dei «valori» tradizionali degli Anni Cinquanta fera il tempo di Perry Mason e di Lucy ed io) il teleschermo è diventato un detonatore politico e culturale dove tutte le inquietudini, vecchie e nuove, trovano saldatura ed espressione. La documentazione in proposito è ormai imponente e gli episodi numerosissimi. Subito dopo i servizi sulla «marcia Washington» degli integrazionisti, organizzata da Luther King nel 1963 pensando proprio alle riprese televisive, i sondaggi di opinione regitrarono un salto dal 13 al 52 per cento nel numero degli americani che giudicavano i diritti civili «il più grave ed urgente problema del momento». Il fatale lapsus del presidente Ford durante un dibattito televisivo con Carter, sulla «libertà e indipendenza della Polonia», passò completamente inosservato fino a che le emittenti televisive sottolinearono nei loro commenti l'enormità della gaffe. A quel punto, Ford, che era stato giudicato vincitore del dibattito per 11 punti percentuali, sì trovò dietro Carter addirittura di 45 punti. La rimonta di Ford nei confronti di Carter, galoppante nelle ultime settimane prima delle elezioni del novembre '76, corrisponde — quasi giorno per giorno, ora per ora — al lancio e allo svolgimento della sua campagna propagandistica in televisione, nella, quale — gli specialisti e lo stesso Carter furono d'accordo — i repubblicani avevano fatto meglio dei democratici. Oggi perfino un partito conservatore come il repubblicano ammette di avere scelto quale leader parlamentare un senatore particolarmente fotogenico, Baker, sapendo che, per avere qualche speranza di udienza presso il pubblico, anche il partito di Lincoln deve piegarsi alla tirannide del videotape. Anche se il rapporto fra comunicazione televisiva e clima politico suscita controversia tra l'arroganza li¬ bresca della cultura universitaria e la petulanza dei neofiti di Me Luhan, resta un fatto acquisito negli Stati Uniti, Altrettanto indiscussa è la natura intrinsecamente antagonistica del mezzo, portato a descrivere in termini drammatici, di facile presa, l'attività del governo e lo stato della nazione ad un pubblico reso vulnerabile dall'impressione di poter «vedere con i propri occhi». L'incapacità di afferrare e spiegare fenomeni troppo articolati (si può fare un primo piano di Carter, ma non di un partito) ha affrettato il declino dei partiti Usa, favorendo il prestigio di istituzioni facilmente identificabili come la Casa Bianca, il Segretario di Stato, il giudice. Con sorpresa ed entusiasmo crescente, sulle orme di Martin Luther King, ogni movimento ha scoperto la disponibilità della televisione a filmare manifestazioni (purché abbastanza animate) e la sua efficacia nel trasmettere messaggi. Mentre la stampa scritta si rifugiava sempre più nelle sue dimensioni locali, come contenuto e diffusione (non esiste in America un vero quotidiano nazionale di opinione), i notiziari nazionali delle reti televisive diventavano la sola «finestra» sul mondo aperta a milioni di persone. E l'ottica televisiva ha portato — pur nella presunzione di un'assoluta neutralità — ad una distorsione gravissima del quadro politico e sociale: ha ingigantito l'impressione del potere della Casa Bianca, esasperando le attese degli amministrati, e ha dato alle voci dell'opposizione una tribuna quasi sempre sproporzionata all'importanza dei movimenti o dei problemi che essi rappresentavano. La televisione non crea ancora i problemi, che preesistono alla comunicazione, ma li solleva ed espande nella ricerca del filmato d'effetto. Dall'osservazione delle Evening News, il telegiornale nazionale della sera, esce così il quadro di un'America piena di guai, popolata di protestatari, di sinistrati, di poveri. Non c'è dubbio che Carter, in questo simile a Kennedy che per primo comprese e sfruttò l'occasione televisiva, ha riflettuto sull'importanza del mezzo e sull'assoluta necessità di far passare la sua opera di governo attraverso le antenne, per controbattere e aggirare le forme avanzanti di opposizione che del teleschermo si servono. Egli stesso è un prodotto della rivoluzione televisiva che gli ha offerto — per la sua stessa natura e non per particolari «tenerezze» — il mezzo di superare /'handicap della sua estraneità all'apparato politico tradizionale: il mezzo con il quale ha portato il suo «caso» e il suo sorriso così fotogenico direttamente di fronte al pubblico. Ma rimane dubbia e da provare la possibilità per chiunque di «controllare» lo strumento senza diventarne, a lungo andare, un ostaggio. 119 pollici La naturale sproporzione fra governo e oppositori, tra chi può domandare tutto e chi può concedere poco, viene ingigantita dal formato televisivo che non vuole annoiare con le sottigliezze, ma afferra perfettamente la bellezza e l'immediatezza di uno slogan. Come un dipinto trompe l'oeil, il teleschermo restringe le pareti psicologiche della società, la percezione che se ne ha, e allarga invece i problemi che si agitano al suo interno, dando una sensazione di esagerata urgenza. La manifestazione violenta che esplode a Detroit e la marcia degli omosessuali in Florida sono separate nella verità geografica da tremila chilometri di Stati sonnolenti e conservatori, ma sono contigue nella realtà televisiva, formano nella mente dello spettatore un continuum politico inquietante e spesso si fondono, per pura sequenza di filmati, con la Casa Bianca. Lo spazio fisico, grande matrice delle libertà individuali americane, si riduce ai 19 pollici del televisore domestico e lo spontaneismo della società statunitense — sovente giudicato proprio dalla distanza — somiglia, nel montaggio delle pellicole, ad un pluralismo selvaggio e fitto. Come se l'America, immune dal gulag stalinista, fosse un arcipelago di atolli vulcanici in costante eruzione. Non solo contro la realtà, ma contro l'apparenza elettronica della realtà, ogni Presidente americano deve dunque misurarsi e governare. La televisione rende possibile il sogno della democrazia diretta, portando forse la democrazia stessa più vicina all'ingovernabilità assoluta e alla sua fine. Non più due partiti, duemila associazioni o centomila giudici, ma 220 milioni di americani, tutti potenziali oppositori o sostenitori, secondo l'umore, la notizia o la reazione del giorno. Non serviranno giudici, violenze, voti o scioperi: per far cadere un governo basterà cambiare canale. Vittorio Zucconi