Primo Cimbelino italiano

Primo Cimbelino italiano Primo Cimbelino italiano Shakespeare messo in scena, al teatro romano di Verona, dal regista Giancarlo Nanni (Dal nostro inviato speciale) Verona, 20 agosto. Stufo, chi sa, di sentirsi ripetere che, prima di reinterpretare e mettere sossopra un classico che il pubblico non conosce o conosce a malapena, bisogna rappresentarlo «cosi com'è scritto», Giancarlo Nanni ha scelto Cimbelino, che in Italia non era ancora stato dato, e l'ha messo in scena per l'estate teatrale veronese come Shakespeare l'ha scritto, o quasi, e con una chiarezza che suona persino come una sfida ai colleghi dell'ufficialità registica. Rimproverargli ora di aver mutato stile o, peggio, di aver ceduto alle lusinghe del teatro tradizionale sarebbe ingiusto (se non dal pulpito dell'avanguardia), tanto più che lo spettacolo non è piatto o usuale e, nell'ultimo quarto d'ora, il «vero» Nanni rispunta fuori, quasi a ricacciare in gola ai maligni le insinuazioni di tradimento nei confronti del nuovo teatro. Come Shakespeare l'ha scritto, si diceva: ammesso che Cimbelino sia tutta farina del suo sacco. E pare proprio che non lo sia, come certamente non è sua la stucchevole « visione », qui giustamente soppressa, dal quinto atto che, interpretata da un indovino, dovrebbe servire a risolvere gli enigmi dell'intricatissima vicenda, e che invece ha tutta l'aria di una concessione ai nuovi gusti per un teatro scenografico (Inigo Iones?) che contribuirà ad allontanare definitivamente Shakespeare dal palcoscenico: Cimbelino è uno dei suoi ultimi lavori e si vede; la sua struttura di romanzo, anzi di feuilleton come osserva Nanni, è puntellata di richiami, echi e anche anticipazioni (La tempesta, con cui Shakespeare chiude con il teatro, è di un anno o due dopo), quasi un repertorio o una ricapitolazione di tutta l'opera shakespeariana. Nucleo del dramma, e punto d'incontro di altre romanzesche vicende nella cor¬ nice fantastorica di una guerra tra britanni e romani, è la scommessa sulla fedeltà di una moglie, Imogene (le fonti sono la novellistica medievale e il Decamerone), tra Postumo, un marito troppo credulo che ha qualche tratto di Trailo, e Jachimo, un avventuriero italiano che è il vilain machiavellico di tanti intrighi elisabettiani e che sarebbe Jago sputato se l'attore Pietro Di Jorio, che lo interpreta con molto spirito gustosamente zacconeggiando tra svolazzanti veli neri, non lo facesse assomigliare anche a Dracula. E in questa storia si ritrova, ad esempio, il risveglio di Giulietta accanto al cadavere di Romeo, cioè della calunniata Imogene al fianco di un uomo decapitato che essa scambia per Postumo, mentre la grande ombra di Lear aleggia su re Cimbelino, signore protagonista quasi mai in scena, che brancola fra accadimenti che lo sopraffanno e non si accorge della perfidia di una regina più cattiva della matrigna di Biancaneve. In questo personaggio senza nome, che trama per assicurare la successione al trono del figlio, lo sciocco e vanitoso Cloten, c'è anche un pizzico di Lady Macbeth e lo spettacolo accortamente lo sottolinea facendolo morire in sefna (al contrario del testo che lo dimentica tra le quinte) dopo aver confessato i propri misfatti. Oltre al lavoro di adattamento che ha dovuto necessariamente compiere per restringere in dimensioni sopportabili una tragicommedia fiume come Cimbelino (secondando una confusione di lingue e di stili che costituisce una caratteristica, se non un pregio, di un pastiche forse meno di Shakespeare che dei suoi attori), Nanni si è preso anche altre licenze, ma non ne ha abusato, con il testo. Nell'ultimo atto, così imbrogliato che anche Shaw credette bene a suo tempo di rifarlo di sana pianta, Cimbelino diventa finalmente protagonista e in una specie di incubo o delirio del vecchio re si riassumono e si sciolgono tutti i nodi della vicenda, e gli altri personaggi si spiegano, ma anche si dissolvono, nello sfondo con una mimica au ralenti, di sogno appunto. Anche se non perfettamente riuscito (forse il mutamento di rotta della regia è troppo brusco), è questo il momento più interessante e più originale di uno spettacolo che prima va avanti meravigliando il pubblico con macchine, congegni, impalcature e carrelli di ogni genere, un po' ronconiani se si vuole (è la moda), manovrati a vista da assistenti celati dietro mascheroni di tragedia antica: macchinismi assai ingegnosi e anche divertenti che si alternano o completano una struttura a scomparti di legno grezzo mobili e pieghevoli che co¬ stituisce l'asse portante della scenografia di Sergio Tramonti, del quale sono anche i fantasiosi costumi, ora azzeccati, ora no. Di nuovo alle prese, dopo l'infelice esperimento con lo Stabile genovese per Ondina di Giraudoux, con attori di diversa estrazione e che devono «dire» oltre che «fare», Nanni non ha avuto problemi con Manuela Kustermann, che di Imogene ha fatto una figura adorabilmente viva e non soltanto un simbolo di insipida onestà (e speriamo che gli spettatori si siano finalmenti accorti che razza di grande attrice sia, noi lo sapevamo da un pezzo). Ma anche gli altri, e specialmente Barbara Valmorin, Massimo Daporto, Eduardo Florio e Daniele Griggio se la cavano piuttosto bene. Sono stati tutti assai applauditi dal pubblico del teatro romano. Alberto Blandi

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