Se Mosca venisse alla Biennale

Se Mosca venisse alla Biennale SI PREPARA (CON FATICA) IL PROGRAMMA SUL DISSENSO Se Mosca venisse alla Biennale La strategia degli organizzatori è di mettere in evidenza il significato culturale di mostre e convegni - "Non processo politico, ma dibattito concreto" - Dialogo con un protagonista della Primavera di Praga sulla resistenza all'Est-I fondi, gli uomini (Dal nostro inviato speciale) Venezia, agosto. Si aspettano un grande successo, un clamore di stampa; ma insieme sono prudenti, avvertono: «E' solo un dibattito culturale, non un fatto politico». Dicono che il tema del dissenso è cresciuto, sta ancora crescendo; e che i Paesi dell'Est non potranno rifiutarsi al dialogo. Confermano che il pei non è più ostile e che indirettamente collabora. Ma si chiedono: «Basteranno i soldi e le forse?». Gli organizzatori della Biennale sul dissenso, che si terrà a Venezia dal 15 novembre al 15 dicembre, sono pochi: il presidente Ripa di Meana e alcuni collaboratori, italiani e stranieri. I direttori dì sezione si sono dimessi, il comitato eletto dal direttivo (Zampetti, Seroni e Rossini) ha una funzione formale. Seroni, comunista, ha votato contro il programma; ora non ostacola, ma non può francamente aiutare. Rossini, democristiano, è stato nominato direttore della terza rete tv, che è tutta da costruire: non ha molto tempo. Neppure dai consiglieri socialisti, compagni del presidente, si può pretendere troppo: Mazzariol era in un primo tempo addirittura contrario. Così la preparazione di questa Biennale anomala avviene in modo anomalo; anche se il tempo lavora per allargare il discorso e coin¬ volgere, in bene e in male, altra gente, con i pochi organizzatori. Ripa di Meana è come uno di quei pescatori che hanno gettato la rete e stanno scrutando le acque, prima di ritirarla: potrà essere piena o vuota, dipende dalla marea. Dipende cioè dal momento ideologico in cui cadrà la manifestazione, dalle convenienze internazionali, dal peso autonomo che avrà acquistato il dissenso. Intanto, si prepara un piano di lavoro con un elenco di invitati. Ci saranno tre esposizioni (cinema, arte, letteratura) e numerosi convegni. Il programma e gli inviti saranno sottoposti in settembre al consiglio direttivo, che li approverà: a quel punto non avrebbe strumenti per fare discriminazioni e censure. L'unica censura l'ha fatta stringendo la manifestazione in inverno e riducendo all'osso i fondi (280 milioni); ma il bilancio, gravato dai passivi precedenti, non offriva troppe risorse e magari qualcuno pensa che il dissenso sia già ricco, come parola e attrazione, per conto suo, senza avere bisogno di soldi. Tuttavia: c'è un modo univoco per intendere il dissenso? E quali opere e artisti saranno invitati a rappresentarlo? E in che vesti la Biennale vuole presentarsi ai governi dell'Est europeo? Sulla diplomazia e sulla sostanza della Biennale abbiamo parlato con il presidente. Ripa di Meana, e con uno dei suoi più autorevoli consulenti in tema di dissenso, Antonin Liehm, esule cecoslovacco, tra i responsabili della Gazzetta Letteraria che preparò dieci anni fa il congresso degli scrittori, antefatto della Primavera di Praga. Con Meana e Liehm si conversa al fresco di un giardinetto veneziano e si capisce che Liehm ha il compito di garantire la manifestazione su due fronti, correggendone eventualmente il tiro, dentro e contro le polemiche. Dunque, quale dissenso? Dice Liehm, prudente: «Tutta l'arte è una sfida allo statu quo, è questa la sua funzione. Gli artisti sono naturalmente contro i regimi. Ma i paesi socialisti dell'Est devono capire che la presenza degli artisti e degli intellettuali non li diminuisce, porta, anche nella controversia, un indispensabile arricchimento». Va bene, ma di fatto come si pone il problema all'Est? «Prendiamo il nostro esempio, degli scrittori cecoslovacchi. Noi abbiamo compiuto un'azione prima culturale che politica, abbiamo demistificato le strutture ideologiche della società nella quale vivevamo. Un poco come accadde agli intellettuali in Francia nel Settecento: non facevano di mestiere gli agitatori, ma distruggevano i falsi miti. La Primavera di Praga è venuta come conseguenza e dopo non si è po- tuti tornare indietro, neppure con l'intervento dei carri armati». Vuol dire che la repressione ha imposto la forza, senza distruggere le premesse della Primavera? «Appunto. Oggi si può affermare che all'Est non esistono più regimi ideologici, come una volta. Il fondamento marxista è stato vinto dalla ragion di Stato. Dopo l'esperienza della Primavera le autorità hanno chiuso per due anni le cattedre di marxismo in tutte le Università. Era un paradosso: un regime "marxista" che proibiva l'insegnamento del marxismo». Ed ora com'è la situazione in Cecoslovacchia e negli altri paesi dell'Est? Come si forma il dissenso? «Questa è la domanda alla quale la Biennale dovrà rispondere, con analisi serie, non con slogans o processi sommari. Bisognerà chiarire, per esempio, come in Cecoslovacchia s'è rimesso in moto il meccanismo del potere, soffocando ogni altra voce. Non c'è notizia di gulag, non c'è notizia di nulla. Tutto tace. Ora, come si mantiene il totalitarismo in un paese dove è saltata la falsa premessa ideologica? Diverso è il caso dell'Urss, della quale conosciamo i metodi repressivi e le forme, alcune, del dissenso. Diverso il caso di paesi apparentemente più liberali come la Polonia. L'Est non è un blocco unico, le situazioni nazionali sono fortemente differenziate, il dissenso ha gradi dissimili. La Biennale dovrebbe essere un grande sforzo per uscire dai luoghi comuni e dalle approssimazioni». Liehm polemizza: «E' difficile trovare esperti sull'Est. Ci accorgiamo che le analisi più importanti non sono state ancora fatte». E torna al suo punto, al suo desiderio: «E' indispensabile un confronto con gli artisti dell'Europa Orientale, attraverso le opere e il dibattito diretto. Bisogna spiegare perché i buoni film nascono anche in condizioni oggettivamente difficili. Un esame corretto della situazione sarà estremamente utile anche alle forze culturali dell'Occidente ». L'esule spera dunque in una Venezia che divenga portentosamente per qualche settimana una specie di zona franca tra i blocchi, con le frontiere che, per un momento, si aprono. Riflette: «Oggi si parla di repressione anche in Italia. Credo che la repressione si misuri concretamente in un paese dalla possibilità che ha il dissenso di farsi sentire e dalla libertà di espressione di chi difende i dissenzienti». Per l'Italia ci sono, allora, speranze. Liehm scherza: «Ho seguito l'utile dibattito sulla denuncia firmata da Sartre. Vedo che siete molto legati alla cultura francese e alle sue provocazioni. Come si dice in Cecoslovacchia: quando a Mosca piove, a Praga si apre l'ombrello. La Biennale servirà, credo, anche alla chiarezza e al metodo del vostro dibattito italiano». Non sarebbe un cattivo risultato. Ripa di Meana ci riporta al tema dell'Est e alla linea strategica per affrontarlo. S'è capito il suo cruccio metodologico, accentuato dalle polemiche dei mesi scorsi: cultura e non politica, discussione e non ingerenza. Tira fuori una lettera del matematico sovietico Valentin Turcin, prima imprigionato ora scarcerato, responsabile per l'Urss di Amnesty International, l'organizzazione che difende la libertà dei dissidenti non violenti, Scrive alla Biennale Turcin: «Io e molti miei amici attribuiamo una grande importanza alla vostra iniziativa che sancisce il riconoscimento del fatto che i dissidenti non costituiscono solo un fenomeno socio-politico, ma sono anche un fenomeno culturale... I dissidenti non conducono una lotta politica nel senso ristretto del termine, vale a dire una lotta per il potere; essi si battono per la non partecipazione alla menzogna e si differenziano dagli altri cittadini non per le loro opinioni politiche, bensì per i loro princìpi etici, filosofici e religiosi e per il loro comportamento, che è il risultato di questi princìpi. Ne consegue che la differenza fondamentale si situa nella sfera culturale e non nella sfera politica». E' un segnale verso l'Est, che Ripa di Meana rende pubblico per dire che Turcin non è un terrorista, ma un uomo di cultura. Dargli il passaporto per Venezia non sarebbe un'offesa al codice penale. Dice il presidente: «Il potere talvolta ha un modo sornione di adattarsi alle circostanze. Speriamo fermamente che capiscano le nostre buone intensioni». Speriamo. Lui ha scritto anche una lunga lettera alla New York Revue of Books, dopo un articolo sulla Biennale pubblicatovi da Furio Colombo, per spiegare sim¬ metricamente all'Ovest lo stato d'animo degli organizzatori: «La Biennale ha già aperto la sua porta alla sfida e alla contestazione dell'arte e della cultura italiana. Poi s'è dedicata al confronto tra la cultura, l'arte e i regimi totalitari dell'Occidente. E' in perfetta logica con le nostre iniziative che noi ci proponiamo quest'anno di esplorare gli stessi fenomeni nel contesto di alcuni paesi dell'Eupropa Centrale e dell'Est». Non si potrebbe essere più chiari e più asettici. Se aggiungiamo che nel programma del cinema, per esempio, accanto ai nomi di registi contemporanei come il sovietico Parajanov (in prigione), il polacco Wajda, il cecoslovacco Vojtech, ci saranno i maestri dell'avanguardia sovietica intesi come precursori del dissenso, si capirà la diplomazia e la prudenza con cui la Biennale sta lanciando i suoi messaggi. Non altrimenti severi appaiono i temi dei convegni: «Il cinema di Stato, i suoi vantaggi, i suoi problemi»; «Che cos'è la letteratura nei paesi dell'Est»; «I rapporti tra i partiti e la scienza». Aperte a tutti gli studiosi (molti i comunisti italiani, a titolo personale) saranno le relazioni, raccolte nei cataloghi-guida alle mostre. Basterà? Certamente per togliere alla Biennale ogni sospetto di strumentalizzazione o di processo sommario a tutti i paesi dell'Est. Rimane aperto l'interrogativo sui risultati conclusivi di questo sforzo, sulla quantità di materiale che si riuscirà a raccogliere, di persone che si potranno riunire. Ripa di Meana dice: «La Biennale coinciderà con la fase finale della conferenza di Belgrado. Noi vorremmo contribuire alla distensione internazionale, e insieme proporre misure concrete in favore dei diritti civili e contro la repressione del dissenso, dove è più forte e radicata».